Persecuzioni Rohingya: buddhisti a difesa del regime birmano
Alcune migliaia di buddhisti hanno manifestato per le vie di Yangon, la più grande città del Myanmar, in supporto alla campagna contro la minoranza dei musulmani Rohingya, promossa dalle forze militari guidate dall’ambiguo Min Haung Hlaing, capo dell’esercito dal 2011, nato nel 1956, quando ancora il Paese si chiamava Birmania e la Lega della Libertà Popolare, fautrice dell’indipendenza nazionale dalla Gran Bretagna nel 1948, si stava disgregando.
Nonostante sia stato accusato di genocidio e crimini contro l’umanità dalla Corte Penale Internazionale dell’Aia in relazione alla brutale repressione ai danni dei musulmani Rohingya, indigeni dello Stato del Rakhine o, secondo alcuni, migranti provenienti dal vicino Bangladesh stabilitisi in Birmania durante il dominio coloniale britannico e per questo considerati “ospiti indesiderati”; i manifestanti hanno esibito suoi ritratti, promettendo di contrastare con tutte le loro forze i tentativi della comunità internazionale tesi ad assicurare alla giustizia ufficiali e generali coinvolti nell’uccisione di circa 6.700 Rohingya a partire dall’agosto 2017.
Torture, stupri, incendi dolosi contro abitazioni e fattorie, uccisioni di massa: lo scorso anno lo Stato del Rakhine e i circa 800mila Rohingya residenti in loco, hanno assistito impotenti ad una campagna definita dall’Onu quale “caso esemplare di pulizia etnica”, che ha visto la partecipazione attiva di monaci buddhisti, giunti in soccorso dei militari. Una violenza tale da far guadagnare ai Rohingya il triste primato di minoranza più perseguitata al mondo. I 700mila Rohingya fuggiti dalla furia cieca della giunta birmana hanno attraversato il confine con il Bangladesh, venendo accolti presso campi predisposti appositamente, oramai sovraffollati e connotati da un limitato accesso a cibo, medicine ed istruzione.
Durante la manifestazione un monaco buddhista, Wirathu, ha sollecitato la comunità internazionale a tenersi fuori dagli affari interni del Myanmar, riferendosi al report ufficiale realizzato dalle Nazioni Unite che indica Hlaing e altri cinque generali delle forze armate quali autori di gravi crimini con “intenti genocidi” ai danni della popolazione Rohingya. “Il giorno in cui la Corte Penale Internazionale opererà contro il nostro Paese […] quello sarà il giorno in cui Wirathu tirerà fuori la sua pistola”, ha continuato il monaco.
Grande protagonista della vicenda, il silenzio colpevole di Aung San Suu Kyi, attuale Consigliere di Stato del Myanmar, Premio Nobel per la Pace nel 1991, figlia di Aung San, presidente della Lega della Libertà Popolare, assassinato nel 1947. Un tempo icona non violenta e democratica, oggi spalla dell’esercito e silente spettatrice delle sue criminali azioni. Il Canada le ha ritirato la cittadinanza onoraria, mentre la Commissione norvegese che ogni anno assegna i premi Nobel per la pace ha dichiarato che l’onorificenza, consegnata in virtù di meriti conseguiti nel passato, non può essere annullata.
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di Vanni Rosini