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Per attaccare la Siria Obama chiede al Congresso. Ma anche no…

di Federico Cenci

La storia non rassicura quanti temono un intervento militare americano in Siria. Nel passato, ogni volta che gli Stati Uniti hanno minacciato di scatenare una guerra, sono poi passati alle vie di fatto. Insomma, quando il governo americano mette il dito sul grilletto, finisce anche per premerlo. E non importa se il Congresso sia contrario, poiché in tal caso il presidente può ricorrere al War Power Resolution, una legge federale del 1973 che gli consente arbitrariamente, senza passare per il voto parlamentare, di inviare in missione forze militari.

Certo, questa legge prevede però dei vincoli precisi. Del resto, essa nasce proprio per dirimere un equivoco che accompagnava gli Stati Uniti sin dal 1789, anno in cui entrò in vigore la Costituzione. L’articolo I della stessa, infatti, riserva l’autorità di dichiarare guerra al potere legislativo, non all’esecutivo. Ciononostante, una serie di esperienze militari avvenute senza previo consenso parlamentare (su tutte, quella del Vietnam, una guerra mai dichiarata) avevano suscitato aspre polemiche. E dunque il War Power Resolution venne ideato per placarle una volta per tutte, fornendo alla presidenza gli strumenti giuridici per agire a prescindere dal parere del Congresso.

Allo stesso tempo questa legge aveva anche il compito di tenere sotto controllo i poteri del presidente. Venne infatti stabilito che essa può essere utilizzata solo in casi eccezionali, ossia «una emergenza nazionale creata da un attacco agli Stati Uniti […] o alle sue forze armate». Inoltre, nel caso di un intervento delle truppe Usa, il presidente, che secondo la Costituzione è il comandante in capo delle forze armate, deve comunicarlo al Congresso entro 48 ore. A meno che non ci sia una specifica autorizzazione, l’operazione non deve durare più di 60 giorni, più altri 30 previsti per il ritiro delle forze impegnate.

Una serie di vincoli, dunque, finalizzati a ricoprire di una veste democratica e istituzionale lo scempio della guerra, oppure a limitarne il ricorso. Vincoli che, tuttavia, sono stati regolarmente ignorati dagli inquilini della Casa Bianca, quale che fosse il loro schieramento politico. In ultimo, dallo stesso Barack Obama, appena due anni fa, durante la crisi in Libia. La scadenza dei 60 giorni venne in quel caso ampiamente trasgredita. Le truppe americane proseguirono la campagna militare contro il Paese governato da Gheddafi senza l’autorizzazione del Congresso e senza una dichiarazione di guerra. Prima dell’attuale presidente americano, un suo predecessore, Bill Clinton, anch’egli democratico, si fece beffa dei vincoli previsti dalla War Power Resolution. Accadde nel corso dell’intervento in Kosovo, nel 1999.

Veniamo all’attualità. La mattinata del 9 settembre è attesa con trepidazione dagli osservatori di tutto il mondo. Quel giorno l’Amministrazione Obama chiederà al Congresso di approvare il testo di autorizzazione per l’uso della forza militare in Siria. Sulla scorta di quanto la storia insegna, tuttavia, non ci sarebbe da stupirsi se ancor prima di quella pur imminente data, gli Stati Uniti, benché non attaccati dalla Siria, decidessero di sferrare il loro attacco al Paese di Bashir al Assad. Un sentore preoccupante in tal senso è rappresentato dall’annuncio della Russia: due suoi radar hanno registrato il lancio di altrettanti oggetti balistici dal Mediterraneo verso la costa siriana. Poche ore dopo, Israele ha ammesso che si è trattato di un test missilistico effettuato insieme alle forze armate statunitensi.

Notizia che non fa altro che confermare quanto detto da Assad al quotidiano francese Le Figaro: «Il Medio Oriente è una polveriera a cui si sta avvicinando del fuoco». Un fuoco che potrebbe dilatarsi esponenzialmente coinvolgendo non solo i Paesi della regione. A questo punto non resta che augurarsi che la storia, almeno per questa volta, rinunci al suo antico retaggio di magistra vitae.

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