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Nucleare iraniano: un accordo che potrebbe cambiare le sorti del Medio Oriente

Il 2 aprile, dopo 18 mesi di trattative e alla fine di otto giorni ininterrotti di colloqui, si è giunti ad un accordo quadro sul nucleare iraniano, fra Teheran e il cosiddetto 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Inghilterra più la Germania, con la Ue come osservatrice). Non è l’accordo definitivo, quello con tutti i dettagli tecnici (dove possono ancora sorgere grossi intoppi) vedrà la luce entro la fine di giugno, ma la volontà di chiudere la trattativa con successo era chiara per i due principali contraenti, Washington e Teheran.

Intendiamoci: i problemi ci sono stati e ci sono ancora, spinti dai tanti nemici di quest’intesa destinata a cambiare gli equilibri dell’intero Medio Oriente allargato; s’è visto già all’inizio col mezzo incidente diplomatico sorto quando Washington ha frettolosamente diramato i contenuti dell’accordo, suscitando l’ira di Zarif, il ministro degli Esteri iraniano, che l’ha ritenuto un clamoroso errore perché permetterà da subito a chi l’osteggia di scegliere i punti da attaccare.

Sia come sia, è fatta; nel comunicato del Dipartimento di Stato il quadro dell’intesa è articolato in sette paragrafi, i cui punti salienti sono i seguenti: l’Iran dovrà ridurre le centrifughe (che servono ad arricchire l’uranio) da 19mila a 6.104 di cui solo 5.060 operative; il processo d’arricchimento attualmente in corso potrà durare 10 anni, ma per i prossimi 15 non potrà superare la percentuale del 3,67% (per il materiale di un ordigno serve il 90%).

L’impianto di Fordo sarà fermato per 15 anni e verrà mantenuto in funzione, sotto il controllo dell’Aiea, solamente quello di Natanz, mentre il reattore di Arak verrà ricostruito in modo da non poter generare materiale fissile. Le scorte di materiale già arricchito verranno portate da 10 tonnellate a 300 Kg, stoccando all’estero o diluendo quelle in eccesso. L’Aiea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) avrà pieno accesso a centrali, miniere e depositi per il monitoraggio dell’applicazione degli accordi.

A fronte di tutto ciò, e non appena verrà certificata l’osservanza dei termini dell’intesa, le sanzioni dell’Onu verranno revocate, mentre quelle degli Usa saranno sospese. Per gli specifici dettagli, che sono tanti e complessi, si rinvia al testo definitivo da elaborare, come detto, entro il 30 giugno, e che certamente vedrà le delegazioni impegnate in estenuanti trattative fino all’ultimo istante.

Fin qui i risultati immediati dei colloqui, che pongono sostanzialmente fine ad una stucchevole quanto ipocrita finzione: la favola della pericolosità del nucleare iraniano è stata un pretesto per colpire Teheran con sanzioni economiche e politiche per isolarla e indebolirla, impedendole di giocare a pieno il ruolo che le compete in uno scacchiere (il Medio Oriente allagato) ove i suoi avversari hanno provato ad imperversare a piacimento. Restano da analizzare le immense conseguenze politiche che ne derivano.

Il baricentro del mondo si è ormai spostato nel Pacifico; Obama ha compreso da anni che è laggiù che si gioca il futuro degli equilibri mondiali e il ruolo degli Usa nel confronto con Pechino, il nuovo vero competitor globale, e con le altri grandi potenze che stanno emergendo come l’India. Per la sua Amministrazione, assai meno legata e considerata ostile dai vecchi centri di potere che da sempre dettano legge a Washington, il Medio Oriente è assai meno strategico di quanto non lo fosse per i suoi predecessori, che lo ritenevano cruciale per i propri interessi fondati in gran parte su quell’antica rete di relazioni e affari.

Il blocco di potere che ha nella casa reale saudita il suo centro, e che comprende le altre petromonarchie del Golfo, vede con terrore questo progressivo distacco che, privandolo dell’incondizionato appoggio americano, metterebbe a rischio i brutali regimi assolutisti che permettono a un gruppo di famiglie di godere di privilegi immensi e delle incalcolabili ricchezze derivanti dal petrolio.

È la stessa paura di Israele che, vedendo da parte di Washington una crescente insofferenza, ultimamente sfociata in aperto dissenso, vede mancarsi il terreno sotto i piedi e reagisce con sempre maggiore nervosismo e brutalità. Questa profonda coincidenza d’interessi ha saldato un’alleanza, da tempo alla luce del sole, fra Tel Aviv e Riyadh a cui quest’ultima, col proverbiale cinico egoismo, ha sacrificato per intero la causa palestinese e tutti i vecchi slogan bugiardi sulla resistenza.

Per i Sauditi, due sono i nemici che possono mettere in discussione il proprio potere assoluto: la Fratellanza Musulmana, con la sua via elettorale all’Islam, e, soprattutto, l’Iran, col suo sistema di valori e dello Stato inconciliabili col wahabismo.

Di qui sono partite le operazioni che insanguinano Nord Africa e Medio Oriente, di qui hanno avuto origine quelle che ipocritamente sono state chiamate “Primavere”: battuta ovunque la Fratellanza, in gran parte per i suoi colossali errori, è rimasto l’Iran a contrastare il disegno d’egemonia completa su tutta l’area. In Siria, in Iraq, in Libano, a Gaza e nello Yemen, sono stati spesi fiumi di denaro, arruolati eserciti di tagliagole prezzolati, suscitate guerre di sterminio e versato un mare di sangue, ma senza riuscire nell’intento, anzi.

Le aggressioni bestiali hanno compattato il fronte della vera Resistenza e, di sconfitta in sconfitta, sauditi ed israeliani hanno visto progressivamente fallire tutti i loro piani, mancando in pieno l’obiettivo di coinvolgere gli Usa e legarli ancora e sempre al Golfo. Di qui lo scatenarsi di un terrorismo sempre più bestiale e sanguinario, per alzare il livello della tensione e tentare ancora di attirare Washington in quei mattatoi.

Da ultimo, dinanzi all’ennesimo fallimento, ed al successo del movimento Ansarullah in Yemen, hanno provato a fare da soli con una coalizione comprata dai petrodollari, ma constatando solo la propria impotenza: in giorni e giorni di attacchi aerei inefficaci dal punto di vista militare, hanno ucciso centinaia di civili, compattando il consenso della popolazione verso gli Houthi e suscitando l’odio generale verso di loro, mentre la rivolta continua ad avanzare incontrastata, eliminando i fantocci di Riyadh.

È a questo punto che è arrivato l’accordo di Losanna, che rimette a pieno titolo l’Iran sullo scenario internazionale. Certo, Teheran era già pienamente coinvolta in tutto lo scacchiere, ma ora si apre la via perché possa fare la sua parte in pieno concerto con le altre potenze; e poi, liberato dalle sanzioni economiche, sarà un colosso quello che in breve balzerà in piedi per stabilizzare le crisi in atto dall’Eufrate al Mediterraneo.

Per Riyad e Tel Aviv, un Iran più che mai forte e pienamente in gioco, e gli Usa che si allontanano dall’area presi da altri interessi, lasciandole a fare i conti con i tanti crimini perpetrati, è uno scenario da incubo. Per questo le resistenze alla definizione dei dettagli dell’accordo saranno furiose, ed entrambe tenteranno l’impossibile per sabotare la fase finale delle trattative, perché sanno di giocarsi la sopravvivenza dei propri sistemi di potere.

A parte le fortissime resistenze di un Congresso dominato dai repubblicani (e dalle lobby che fanno riferimento al Golfo e ad Israele), sono da mettere in conto sviluppi drammatici e sanguinosi colpi di testa da parte di chi si sente alla fine della corsa (e parliamo soprattutto della leadership di Tel Aviv), ma, comunque sia, dopo la svolta impressa a Losanna, lo svolgersi degli eventi ormai attivato in Siria, in Iraq ed ora anche in Yemen, potrà essere ritardato ma non bloccato.

di Salvo Ardizzone

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