Non si ferma la crisi nel Nagorno-Karabakh
Gli scontri che nei giorni scorsi hanno insanguinato il confine del Nagorno-Karabakh, i più violenti dal 1994 quando ufficialmente la guerra fu fermata, hanno riportato alla ribalta un conflitto dimenticato, che rappresenta la peggiore causa potenziale di destabilizzazione del Caucaso meridionale e non solo.
Sconosciuto ai più, il Nagorno-Karabakh è una regione separatista dell’Azerbaijan occidentale a schiacciante maggioranza armena, confinante appunto con l’Armenia; fra il 1988 e il 1994 una guerra sanguinosa che causò oltre 30mila morti e più d’un milione di sfollati ne fece uno “Stato de facto”, una repubblica indipendente non riconosciuta dalla comunità internazionale. Da allora il conflitto è rimasto congelato per l’impossibilità di trovare una soluzione politica, salvo uno stillicidio di violenze lungo la linea di contatto fra indipendentisti armeni e l’esercito azero.
La Turchia ha da subito appoggiato l’Azerbaijan sia sul piano politico che economico e militare, ed ha tentato di isolare l’Armenia, che supportava i separatisti, anche a causa dello storico contenzioso che la contrappone ad essa. Per Ankara, sostenere Baku è una preziosa opportunità per tentare di estendere la sua influenza sul petrolio e sul gas del Caspio, aspirazione che accarezza da sempre, ed è in questa ottica che ha inviato nel Paese un piccolo contingente militare, rafforzando così le ripetute dichiarazioni sull’integrità territoriale azera.
Per la Russia si trattava d’un conflitto sorto in territori che avevano fatto parte dell’Urss, legati ad essa da ragioni politiche ed economiche; per questo ha avuto sin’ora un’influenza considerevole sia su Baku (la capitale azera) che su Erevan (la capitale armena), ed ha assunto una posizione neutrale all’interno del Gruppo di Minsk, l’organismo voluto dall’Ocse per negoziare una soluzione diplomatica.
Tuttavia, negli anni Mosca ha cercato da un canto di contrastare la crescente influenza dell’Occidente, di Israele e della Turchia, attirati tutti dalle risorse energetiche azere; dall’altro di legare a sé un Paese isolato come l’Armenia, minacciato dall’aperta ostilità turca.
A tal proposito, le già buone relazioni di amicizia fra Mosca ed Erevan sono state cementate da un’alleanza formalizzata da accordi militari difensivi e dalla partecipazione dell’Armenia a tutte le iniziative politico-economiche russe, ed alla sua rinuncia di associarsi alla Ue aderendo invece all’Unione Economica Eurasiatica. Inoltre, oltre a corposi finanziamenti per lo sviluppo della depressa economia armena, la Russia ha rafforzato la sua presenza su quel territorio con proprie basi militari che costituiscono una preziosa testa di ponte verso il Medio Oriente.
Nelle dinamiche del conflitto, che vedono le potenze dell’area pesantemente interessate, s’aggiungono le motivazioni armene e azere: entrambi gli Stati sfruttano la crisi per nascondere e superare le pesanti difficoltà interne. Erevan ha presentato il conflitto come una guerra di liberazione nazionale che ha liberato una terra occupata; così una classe politica che stenta a portare avanti un credibile piano di riforme economiche e sociali, picchia sul tasto del nazionalismo facendo leva sull’orgoglio nazionale per tenere la popolazione in una eterna condizione di emergenza.
Anche in Azebaijan il tema della riconquista del Karabakh rappresenta un’efficace strumento per distrarre l’opinione pubblica da una situazione economica e sociale disastrosa; il Paese, che dipende totalmente dagli idrocarburi (rappresentano il 90% delle esportazioni e in pratica l’unica fonte di valuta pregiata), con la caduta delle quotazioni del petrolio ha visto andare a rotoli la sua economia, con la moneta che precipita, la disoccupazione che esplode e l’inflazione che distrugge quanto resta.
È uno scenario in cui il conflitto fa comodo a tutti: alle potenze dell’area, che trovano in esso la possibilità d’espandere la propria influenza in un’area strategica; ai Governi di Armenia e Azerbaijan, che tramite esso nascondono le proprie incapacità e si legittimano agli occhi della popolazione.
In questo quadro, il precipitare delle relazioni fra Mosca ed Ankara non solo ha riproposto l’antico schema di contrapposizione fra le due capitali per il controllo del Caucaso, ma ne ha fatto la più classica delle “proxy war”: una crisi da far detonare e da sopire a seconda delle convenienze, attraverso cui si colpiscono gli interessi dell’avversario; una crisi non da risolvere ma da tenere in vita.
È difficile non scorgere questa logica dietro gli scontri improvvisi che hanno mietuto vittime a decine; all’acuirsi della crisi Putin ha subito intimato un cessate il fuoco che faceva intendere che la Russia sarebbe intervenuta in caso di un’estensione del conflitto. Tanto è bastato perché si raggiungesse una tregua, ma una tregua instabile, punteggiata da uno stillicidio di scontri che mantengono alta la tensione.
Esattamente ciò che conviene a tutti. Ciò che s’intravede dietro l’improvviso riacutizzarsi della crisi, è la mossa di Mosca per bloccare il tentativo di diversificazione d’approvvigionamento energetico europeo e le ambizioni di Erdogan di gestirlo, come pure i suoi interessi nel Caucaso. Un modo per scoraggiare pesantemente la penetrazione occidentale, turca e di Israele in un quadrante che il Cremlino considera proprio.
Ma è anche ciò che serve a Baku, alle prese con una crisi economica e sociale che non sa come padroneggiare; ad Erevan, per ragioni in fondo analoghe; ed alla stessa Ankara, che con la minaccia dell’indipendentismo armeno prova a stringere ancor di più la sua presa sul Governo azero.
Insomma, una crisi da far durare sempre, utile a tutte le parti tranne ad una: il Popolo del Karabakh che, dopo quasi trent’anni, è ancora alla ricerca di una pace e una normalità che non avrà mai.