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Nestlé, quanto è amaro un chicco di caffè

di Cristina Amoroso

Anche se il cacao ha ottenuto di recente maggiore pubblicità, per la causa legale lanciata contro la Nestlè da un avvocato californiano specializzato in questo tipo di azioni legali, il cacao non è l’unico ad essere prodotto da schiavi. Anche i chicchi di caffè sono contaminati dalla schiavitù.

Spesso, caffè e cacao crescono insieme nella stessa azienda agricola, dove l’alto albero di cacao fa ombra alle piante di caffè più basse. Immagine idilliaca che ci rimanda al sud del mondo, dove sono concentrati i produttori di caffè, coltivato in grandi piantagioni a produzione intensiva, presso le quali le popolazioni indigene trovano lavoro come braccianti sfruttati o da piccoli produttori che non hanno accesso diretto al mercato e si vedono costretti a vendere il loro raccolto ad intermediari locali, i coyotes. Questi vendono, a loro volta, il caffè a società multinazionali, che stabiliscono e fissano il prezzo.

I programmi di aggiustamento strutturale degli anni Ottanta, voluti dal Fondo Monetario Europeo e dalla Banca Mondiale, hanno provocato l’annullamento di ogni controllo statale, smantellando i Marketing Board, enti pubblici destinati ad assicurare ai piccoli produttori di caffè un prezzo minimo delle vendite, con conseguenti processi di privatizzazione, liberalizzazione e ingresso di capitali stranieri, in nome del neoliberismo.

Se si aggiunge il quadro mondiale delle continue oscillazioni, del ruolo fondamentale degli speculatori finanziari, attraverso strumenti di ingegneria finanziaria, dei coyotes, si intuisce come il mercato del caffè sia regolato da giganti, quali il gruppo svizzero Nestlè (1600 dipendenti, con  un fatturato di 107.6 miliardi di Chf (789,794 miliardi di euro),  e il colosso Jacobs Douwe Egberts (nato da una maxi fusione per dare l’assalto al trono della Nestlè).

Queste due tra le più grandi aziende mondiali di caffè hanno ammesso di recente che i chicchi provenienti da piantagioni del Brasile dove si schiavizzano i lavoratori, possono essere finiti nel loro caffè, perché non conoscono il nome di tutte le piantagioni che li riforniscono, per la presenza di molti intermediari (coyotes).       

Le persone vittime di questo sistema schiavista, costretti a vivere in mucchi di rifiuti e bere acqua al fianco di animali, potrebbero aver lavorato nelle piantagioni che riforniscono le due società, in base alle ricerche DanWatch.

I due gruppi sostengono che le violazioni dei diritti umani sono dilaganti in tutta l’industria del caffè redditizio del Brasile, con centinaia di lavoratori salvati da condizioni simili alla schiavitù ogni anno.

Il Brasile è il più grande esportatore mondiale di caffè, che rappresenta circa un terzo del mercato globale. Eppure, i lavoratori devono spesso affrontare la servitù per debiti, contratti di lavoro inesistenti, l’esposizione ai pesticidi letali, la mancanza di dispositivi di protezione e alloggio senza porte, senza materassi o l’acqua potabile, dice il rapporto DanWatch. Tali condizioni di lavoro sono contrarie alla legge brasiliana ed internazionale, così come lo sono  i codici etici che Nestlé e Jacobs Douwe Egberts richiedono ai propri fornitori.

Di conseguenza, entrambe le società – i cui marchi includono Nescafé, Nespresso, Dolce Gusto e Senseo – ammettono che, mentre essi non acquistano il caffè direttamente da piantagioni incluse nella “lista nera”, in cui le violazioni dei diritti umani sono noti, non possono negare che condizioni simili alla schiavitù possano esistere nella loro catena di fornitura. Nestlé e Jacobs Douwe Egberts lo hanno dichiarato al Guardian, aggiungendo che hanno preso le accuse di DanWatch sul serio e sono “molto preoccupati” dei risultati.

Entrambi Nestlé e Jacobs Douwe Egberts hanno codici etici per proteggere i diritti umani dei propri lavoratori e i fornitori hanno il divieto di utilizzare il lavoro minorile o forzato. Secondo le linee guida Nestlé, i lavoratori devono avere accesso ad acqua potabile e ad un ambiente di lavoro sano.

In relazione alla “lista nera” delle imprese che schiavizzano i lavoratori, questa è stata di recente sospesa, causando le aspre critiche dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil). La perdita di uno degli strumenti fondamentali del Brasile contro lo sfruttamento dei lavoratori, in mezzo alla peggiore recessione del Paese in più di 100 anni, presenta un grave rischio di sfruttamento dei lavoratori prima delle Olimpiadi.

Trovare la schiavitù nelle catene di approvvigionamento agricolo di giganti alimentari a livello mondiale non è sorprendente, anche in Brasile il cui governo ha compiuto notevoli sforzi per contrastare il lavoro forzato. Rimane il fatto che un operaio di caffè brasiliano guadagna circa 2 dollari, per riempire un sacco da 60 chili di caffè. Meno del 2% del prezzo di vendita va al lavoratore, DanWatch sostiene che i lavoratori di caffè spesso usano pesticidi tossici che sono stati banditi in Europa, e lamentano difficoltà respiratorie, eruzioni cutanee e difetti di nascita. Quanto è amaro un chicco di caffè!

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