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Missione Nato in Lettonia e l’ipocrisia dei servi

L’intervista del Segretario della Nato Stoltenberg, resa al quotidiano La Stampa, ha sollevato una tempesta di reazioni da parte del mondo politico. La non-notizia che, nel 2017, 140 soldati italiani si recheranno in Lettonia, ad Adaz Camp, per fare parte di un battaglione multinazionale a guida canadese che la Nato schiererà insieme ad altri tre nei pressi dei confini russi, ha sollevato una bufera che misura l’infima pochezza di tutta la classe politica italiana.

Missione LettoniaInfatti, a meno che i suoi componenti, e per primi quelli dell’opposizione, non abbiano impiegato due mesi e mezzo per capirlo, e solo ora abbiano compreso l’ennesimo atto di basso vassallaggio che l’Italia ha compiuto, contro i propri interessi e contro ogni ragionevolezza, per obbedire come sempre a Washington, non si comprende il perché di questa reazione adesso e non nel luglio scorso.

La comunicazione della partecipazione alla missione Nato in Lettonia, è stata data al Parlamento il 26 luglio dal Ministro della Difesa Roberta Pinotti, due settimane dopo il vertice di Varsavia del 9 luglio, convocato proprio per esaminare (leggi: prendere atto delle decisioni Usa) l’impegno dell’Alleanza per “contenere” (leggi: continuare a provocare) la Russia.

La decisione della Nato di schierare quattro battle-group a livello di battaglione, per la gran parte multinazionali, in Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia, era già largamente conosciuta ancor prima del vertice, anche perché volutamente fatta circolare per tranquillizzare le isteriche pretese di polacchi e baltici, che da un canto continuano a provocare Mosca, ma dall’altro pretendono di essere difesi dalla Nato.

Tralasciamo di commentare una decisione che si commenta da sé: un’ennesima e voluta provocazione, confezionata a bella posta per far salire ancora la tensione e sabotare sul nascere qualunque tentativo di riallacciare la naturale collaborazione fra i Paesi europei e la Russia, osteggiata in tutti i modi da Washington. Altro non può essere l’invio di appena 4mila uomini lungo i confini di quattro Paesi.

Qualche parola potrebbe essere spesa semmai sulla posizione dell’Italia, non a caso in altri tempi soprannominata la “Bulgaria” della Nato per la sua prontezza ad imbarcarsi in ogni iniziativa varata da Washington, anche quando è contro ogni proprio interesse. Fanno ridere amaro le parole assurde del Ministro degli Esteri Gentiloni che, mentre da un lato aderisce in pieno ad una marchiana provocazione, uno schiaffo, insomma, dato alla Russia, dall’altro continua a negare l’evidenza ed a parlare di dialogo e distensione, sperando – non si sa con quale faccia – che oltre le mura del Cremlino se la bevano.

Quello che invece è da sottolineare, e che a noi suscita disgusto, è l’ipocrita canea sollevata ora, da una classe politica che due mesi e mezzo fa non aveva detto una parola, forse perché in vacanza al mare, ma quasi certamente perché di concetti come sovranità e interesse nazionale, asservimento ai padroni d’oltre Atlantico e così via, non ha la benché minima idea.

Se li rispolvera ora, a scoppio ritardato, non è per improvvisa resipiscenza, ma solo per dare l’ennesima prova di becero quanto cinico provincialismo: usa temi così importanti, che qualificano la vita e la dignità stessa di un Paese, come occasionale strumento per colpire l’avversario che la tiene lontana dal potere, perché se lo è preso tutto lui.

E che la ragione sia solo abbattere un potere arrogante e bulimico, ma solo per sostituirsi ad esso, lo si vede bene in questa ignobile campagna elettorale per il referendum, dove, piuttosto che discutere di una pessima riforma, sembra di assistere ad una volgare lite fra comari.

Non ci appassiona neanche un po’ questo dibattito da strada privo di contenuti (e accidenti se ce ne potrebbero essere!), ma giudichiamo vergognoso il basso uso strumentale di temi come l’appartenenza dell’Italia alla Nato e ciò che ne consegue, da parte di sedicenti politici che se ne ricordano solo per le proprie basse convenienze di bottega.

di Salvo Ardizzone

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