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Nucleare iraniano: le ragioni di un diritto

Nei giorni scorsi, dopo intensi colloqui fra Teheran e il Gruppo 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania), s’è conclusa l’ultima sessione d’incontri per trovare un accordo sulla questione del nucleare iraniano, senza che si sia giunti a una soluzione definitiva; la conclusione è stata rinviata al 24 novembre. Lavrov, il Ministro degli Esteri russo, ha dichiarato che le parti hanno trovato un’intesa su quasi tutto, ma restano sul tavolo “due o tre questioni molto difficili”.

Appunto; i negoziatori, dopo aver risolto tutto il contorno, sono giunti ad affrontare il cuore dei problemi; a questo punto, per trovare una soluzione occorre la volontà e la forza politica di superare le resistenze di chi rema con tutte le forze contro questo accordo, che aprirebbe le porte a cambiamenti enormi nel Medio Oriente e non solo.

I nodi da sciogliere sono almeno tre; si tratta di questioni molto tecniche da cui partono conseguenze politiche assai rilevanti. Il primo e più importante riguarda la durata dell’accordo, il periodo durante il quale il programma nucleare verrebbe monitorato e l’Iran sospenderebbe le attività di arricchimento dell’uranio. Il Gruppo 5+1 punterebbe ad un periodo compreso fra i 10 e i 20 anni, mentre Teheran a uno fra i 3 e i 7; il motivo della tempistica deriva dall’accordo siglato nel 2005 fra Russia e Iran, col quale Mosca s’impegnava a costruire l’impianto nucleare di Bushehr e a rifornirlo garantendone l’operatività fino al 2021. Anche se i russi sono di certo disponibili a continuare le forniture, per quella data Teheran vuole acquisire l’autosufficienza, per evitare il ripetersi della disastrosa esperienza del consorzio di arricchimento Eurodif: nel ’73 lo scià vi investì un miliardo di dollari, ma poi la Repubblica Islamica si vide negare la sua parte di combustibile nucleare.

Ma il “diritto all’arricchimento” dell’uranio, rivendicato da Teheran in base all’Articolo IV del trattato di non proliferazione nucleare firmato dall’Iran nel 1970, è il nocciolo vero della questione; da un canto mette in imbarazzo i 5+1 perché è una richiesta assolutamente legale a norma dei trattati, ma dall’altro assicurerebbe alla Repubblica Islamica quell’autosufficienza che i suoi avversari le vogliono assolutamente negare.

Il secondo nodo riguarda le infrastrutture e il livello di arricchimento che sarebbero concesse dall’accordo per quelle che sono definite le “necessità pratiche” dell’Iran; Teheran ha offerto di mantenere il proprio programma all’attuale livello, 19mila centrifughe di cui solo 9mila attive, le altre sarebbero poste in funzione solo dopo che venisse accertata la natura pacifica del programma. I 5+1 puntano a far mantenere fra le 2mila e le 6mila centrifughe; in questo modo la “capacità critica” sarebbe passata dagli attuali tre mesi a un anno. Teheran ha risposto con una controfferta assai dettagliata, proponendo una forma di arricchimento dell’uranio in base alla quale esso non potrebbe in alcun modo essere destinato a scopi nucleari, togliendo la motivazione alla riduzione delle centrifughe e mettendo ancor più in imbarazzo i 5+1.

Il terzo nodo riguarda le sanzioni: l’Iran ha sempre detto chiaro che con l’accordo tutte le sanzioni dovranno essere definitivamente rimosse, ed è ovvio, perché verrebbe a cadere la motivazione ufficiale per cui sono state poste; ma i negoziatori del 5+1 sanno bene che il Congresso americano, controllato com’è da lobby filo israeliane o legate al petrolio saudita, accetterebbe assai difficilmente una rimozione definitiva delle sanzioni; al massimo potrebbero offrire una rimozione temporanea e limitata, soggetta a decreti presidenziali che dovrebbero essere rinnovati ogni sei mesi da quel Congresso. Una soluzione ovviamente inaccettabile per Teheran perché inutile: nessuna banca internazionale, nessuna grande industria rischierebbe di investire seriamente in Iran con una simile spada di Damocle sulla testa. Qualunque accordo di collaborazione, anche fra Stati, rischierebbe di rimanere praticamente sulla carta.

E torniamo alla volontà e alla forza politica per risolvere questi problemi: Teheran le ha dimostrate in pieno, insieme alla buona fede e volontà; Obama, per parte sua, ha un disperato bisogno d’un successo politico che, a cascata, condurrebbe in breve alla soluzione di tante crisi dell’area e altre ne stabilizzerebbe, in Siria, in Iraq, anche in Afghanistan, solo a citarne alcune. Sarebbe l’unico, ma enorme, d’un ciclo presidenziale fallimentare; l’accordo lui lo firmerebbe e subito, ma…

Ma a Washington (e sulla sua Amministrazione) pesano come macigni le lobby e i centri di potere che la manovrano e con lei il Congresso. A novembre negli Usa ci saranno le elezioni di medio termine ed è assai improbabile che Obama possa uscirne rafforzato, anzi; dopo, sarà più difficile, se non impossibile, far ritirare le sanzioni; non è affatto un caso che il nuovo termine della conclusione dei colloqui sia stato posto proprio in questo mese. In pratica è una corsa contro il tempo e contro chi è disposto a giocarsi tutto pur di sabotare un accordo che, finalmente, lo spingerebbe ai margini della storia.

Un’ultima notazione: il primo ministro Rohani, nella conferenza stampa tenuta a margine della 69^ Assemblea Generale dell’Onu, ha concesso una specifica e grande apertura di credito all’Italia, considerandola fra i Paesi amici, con cui s’intrattengono le migliori relazioni commerciali, culturali e politiche, che s’è dichiarato pronto a rafforzare ed ampliare. Rammaricandosi di non aver potuto incontrare il nostro Premier, ha ricordato l’incontro (il secondo in meno d’un mese) fra il ministro degli esteri Zarif e la Mogherini, che dal suo conto ha sottolineato il ruolo cruciale che l’Iran può svolgere.

È una considerazione che il nostro Paese non ha fatto poi molto per meritare, ma è un’occasione preziosa per il Sistema Italia nel suo complesso; per una volta almeno, ci piacerebbe sperare che venisse colta.

di Salvo Ardizzone

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