Cultura

Eutanasia, un diritto ancora negato

di Giovanni Rodini

Io me la immagino, l’eutanasia silenziosa, che oggi si pratica negli ospedali italiani. Me la vedo là, quando la morte viene invitata di soppiatto tra i corridoi dei reparti, quando le si chiede di farsi carico del corpo di un paziente il cui respiro si è rotto, la cui vita è rimasta impigliata tra tubi e fili di macchinari che sembrano voler scacciare l’avanzare delle ombre della sera con una scopa. La morte, allora, diventa la grande consolatrice, non atterrisce più nessuno, ma viene invocata e agevolata, affinché il dolore cessi e si possa tirare il respiro profondo di chi sa che tutto è finito e si può voltare pagina.

E non c’è nemmeno bisogno di tanta fantasia per immaginare quelle centinaia di donne e uomini che ogni anno vengono consegnati a una morte dolce, basta pensare a tutti quei parti clandestini che per secoli si sono praticati quando una legge ingiusta ne poneva il divieto. Anche allora le cose si facevano in silenzio, quasi nemmeno bisbigliando. Anche allora s’invocavano pretese etiche e morali che, inspiegabilmente, finivano per superare il rispetto per la persona, per la sua libertà di decidere del proprio futuro, per il diritto di essere proprietari del proprio corpo e, con esso, del proprio destino.

Già, anche il cammino che ha portato a riconoscere il diritto a interrompere una gravidanza è stato lungo, sofferto, caricato unicamente dal peso paralizzante che le implicazioni religiose e filosofiche hanno su concetti come la vita e la morte. Le riflessioni giuridiche sono arrivate molto dopo, attraverso un dibattito laico che ha fatto fatica a sganciarsi dalle conclusioni a cui morale ed etica erano approdate.

Tuttavia possiamo essere d’accordo sul fatto che noi abbiamo progredito, come individui e come società, ogni volta che ci siamo riconosciuti abbastanza maturi per decidere da soli quale direzione prendere, ai bivi più importanti delle nostre vite. Abbiamo certamente vinto quando abbiamo deciso di puntare sulla libertà e sulla responsabilità delle donne e degli uomini di questo paese per scegliere se e quando diventare madri, padri, famiglie. Abbiamo ancora vinto quando abbiamo puntato sulle cittadine e sui cittadini perché decidessero loro se la loro vita famigliare, se il loro matrimonio, era ancora possibile, ancora vivibile.

Siamo diventati una società migliore ogni volta che abbiamo ottenuto che lo Stato e la Chiesa, entità molto impiccione ma incapaci di dare il buon esempio, fossero presenze meno ingombranti e bacchettone. Tuttavia, ancora oggi, siamo cittadini maleducati, esseri pensanti che sono stati allevati nella convinzione che fosse necessario delegare in bianco le decisioni che realmente contano.

Nel mentre, in mezza Europa, il dibattito sull’eutanasia ha fatto il suo corso e in diversi paesi, attraverso un testamento biologico o attraverso una dichiarazione rilasciata dal paziente al medico, tutti hanno il diritto di decidere come accomiatarsi da questo mondo.

Il testamento biologico appartiene alle dichiarazioni di ultime volontà. Con esso si riconosce a ogni cittadino la libertà di scegliere quali terapie è disposto ad accettare, nella denegata ipotesi che dovesse trovarsi in una situazione di incapacità per acconsentire o meno alle cure che gli vengono proposte. Attraverso il testamento biologico, ogni persona potrà indicare i limiti entro i quali i medici dovranno adoperarsi per salvargli la vita. Non significa quindi scegliere di morire, si tratta di scegliere come morire e solo a talune determinate condizioni, al verificarsi delle quali, i medici dovranno evitargli altre sofferenze che non abbiano una certa possibilità di resa. In breve, con l’eutanasia non aumentano i morti, ma diminuiscono le sofferenze.

Il nostro ordinamento, invece, prevede e punisce la condotta del medico che allevia il dolore e l’agonia del suo paziente, offrendogli una via d’uscita senza inutili atrocità. Il codice penale lo chiama omicidio del consenziente e prevede una pena, nel massimo, di quindici anni di reclusione per coloro che cagionano “la morte di un uomo, con consenso di lui”, obbligando i medici a tenere in vita anche pazienti ormai divenuti vegetali e che possono andare avanti per mesi, o spesso anni, contro la loro volontà.

Certo, per chi si può permettere i 7500 euro di intervento, c’è la vicina Svizzera, dove l’interruzione della vita è riconosciuta e ben regolata. Tuttavia in questo modo si carica maggiormente, di costi ma anche di disagi, la persona che abbia scelto di lasciarsi dietro la sofferenza, optando per uscire di scena con dignità. Altre soluzioni non ce ne sono, occorre morire da esuli se si desidera ricorrere all’interruzione della propria vita, senza rischiare di mettere nei guai medici e infermieri.

Nel mentre, da qualche anno, giace in qualche sgabuzzino del Parlamento una raccolta di quasi centomila firme, a sostegno di una proposta di legge di iniziativa popolare che non sembra attirare l’attenzione di nessuno.

Pertanto continuiamo ancora ad aprire la porta di soppiatto perché venga la morte ad aiutarci, obbligati ad agire con lo stato d’animo di chi è costretto a fare solo quando nessuno guarda e Dio non giudica.

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