Molestie sessuali: responsabilità datori di lavoro e colleghi
Molestie sessuali e stalking sono due delle derive che può prendere un rapporto di lavoro, trasformandolo in un calvario ed in ogni caso in un’esperienza traumatica e difficilmente risanabile. Nonostante un significativo calo dei casi denunciati e nonostante campagne di sensibilizzazione, provvedimenti legislativi ed accordi quadro, il fenomeno sembra essere più che vivo ed in grado di popolare ulteriormente il già cospicuo numero delle proprie vittime.
Secondo l’Istat sarebbero 8 milioni 816mila (43,6%) le lavoratrici fra i 14 e i 65 anni che nel corso della vita hanno subito qualche forma di molestia sessuale. Solo negli ultimi tre anni i casi di lavoratrici vittime di molestie sessuali sarebbero 3 milioni 118mila (15,4%). Ma il dato non riguarda solo le lavoratrici, in quanto anche 3 milioni 754mila lavoratori sarebbero stati vittime di molestie (18,8%), 1 milione 274 mila negli ultimi tre anni (6,4%).
Gli autori di molestie a sfondo sessuale comunque sono per la maggior parte gli uomini, mentre le loro condotte vanno dalla molestia verbale, a quella fisica a quella virtuale via chat o social network. Uno degli aspetti più odiosi è rappresentato dal ricatto sessuale rivolto alla vittima per l’assunzione, il mantenimento del posto di lavoro o un avanzamento di carriera.
Quando si può parlare di molestie sessuali e non di semplici avances?
Sicuramente vanno considerate molestie sessuali tutti quei comportamenti a sfondo sessuale non desiderati da chi li subisce e idonei ad offendere la dignità della vittima. Si pensi a tutta quella sgradevole gamma di condotte che vanno dall’apprezzamento a sfondo sessuale, allo strusciamento, alla palpata, ai messaggi compromettenti e dal contenuto esplicito.
La vittima si trova precipitata in una condizione di angoscia e tensione costante e recarsi sul luogo di lavoro rappresenta un trauma che si rinnova e rafforza quotidianamente. Tale condizione è, nella quasi totalità dei casi, vissuta in uno stato di isolamento dalla vittima, complice l’atteggiamento omertoso, quando non accondiscendente o compiaciuto, di colleghi e datori di lavoro. La paura di ritorsioni, l’indifferenza verso il collega o il proprio dipendente o addirittura una cinica visione del concetto di competizione lavorativa, creano il vuoto attorno alle vittime, lasciandole completamente in balìa dei loro aguzzini.
Una recente ed interessante sentenza del Tribunale di Milano ha riconosciuto, non solo la responsabilità penale dell’imputato autore delle molestie e superiore gerarchico della vittima, ma anche la responsabilità civile e della società datrice di lavoro per non aver predisposto le adeguate misure di tutela della propria dipendente che, più volte, aveva denunciato alla società le molestie subìte. Lo stesso Tribunale ha poi predisposto la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero perché venga riconosciuta la responsabilità penale in capo alla società datrice e ad alcuni colleghi per non aver impedito l’evento e per aver prestato falsa testimonianza.
Cultura della sopraffazione e dell’abuso di potere
La nuova legge di bilancio entrata in vigore il 1° gennaio 2018 ha previsto un’ulteriore serie di tutele per le vittime di molestie sessuali sui luoghi di lavoro, mettendole al riparo da tutte quelle misure ritorsive che possono andare dal demansionamento al licenziamento, prevedendone in questo caso l’immediata reintegra nel posto di lavoro e non più il semplice risarcimento.
Una maggiore consapevolezza sembra dunque animare gli ultimi provvedimenti del legislatore e di una parte di giurisprudenza, ma fino a quando la cultura della sopraffazione e dell’abuso di potere nei luoghi di lavoro verrà ritenuta meritevole di omertosa protezione, certi luoghi di lavoro saranno ben lontani dall’ideale di sviluppo della vita economica e sociale del Paese.
di Massimo Caruso