Medio Oriente, dall’egemonia Usa alla Resistenza Islamica – Intervista
La storia serve per capire il presente. Questo vale in particolar modo per il Medio Oriente, regione del mondo quanto mai ribollente e sempre in evoluzione a causa di governi instabili e interferenze straniere.
Una volta mi dissero…”per iniziare a capire le varie alleanze e le strategie politiche del Middle East segui le varie confessioni” e capii che era solo un incipit. Questo libro illustra, descrive e chiarisce come gli assetti attuali di questa regione del mondo, se di assetti si può parlare in quanto siamo sempre di fronte a situazioni caotiche, siano scaturiti da guerre, alleanze e colpi di stato e come la religione Islamica abbia influito alla gestione politica degli Stati.
Riportiamo di seguito l’intervista all’autore del libro “Medio Oriente, dall’egemonia Usa alla Resistenza Islamica“, Salvo Ardizzone, il quale senza dubbio fornirà delle chiavi per approfondire le dinamiche del Medio Oriente.
1) Come nasce questo libro?
Il libro nasce alcuni anni fa all’interno della rivista Il Faro sul Mondo, allo scopo di fornire una chiave di lettura dei rivolgimenti epocali in corso nel Medio Oriente allargato. Quel vasto arco di mondo a noi vicino è percorso da crisi e guerre che, dall’11 settembre 2001, hanno avuto una crescente accelerazione. In Occidente si dà una lettura volutamente distorta che nulla spiega; una narrazione di comodo per giustificare ciò che giustificabile non è (vedi invasione dell’Iraq o distruzione della Libia).
Da anni Il Faro sul Mondo è impegnato ad analizzare quegli eventi al di fuori degli schemi (e delle censure) funzionali ai sistemi di potere che vogliono mantenere il proprio dominio sul Medio Oriente e le sue ricchezze, ma serviva qualcosa di più che degli articoli per spiegare in modo organico fenomeni tanto complessi. Serviva un libro, anzi, una trilogia, perché tale è divenuta l’opera nel suo complesso, per abbracciare le dinamiche dell’area dalla fine della II Guerra Mondiale ai giorni nostri.
In pratica, grazie all’esperienza e le conoscenze del Faro, è stata scritta una contro storia da opporre alla vulgata ufficiale, ed essa racconta, in estrema sintesi, che in Medio Oriente è in atto una guerra fra chi detiene un antico sistema di dominio sulla regione, e fa di tutto per mantenerlo, e chi intende scrollarselo di dosso. È seguendo questo filo rosso essenziale che trovano spiegazione le crisi e guerre che sconvolgono quella regione.
2) Come la Rivoluzione Islamica iraniana del 1979 cambiò gli assetti del Medio Oriente e perché poi, divenne Israele il punto di riferimento per la politica mediorientale americana?
Alla soglia del ’79, la cruciale area del Golfo Persico era sotto il totale controllo americano e, anche nel resto del Medio Oriente, erano ben poche le spine seminate dall’Urss che insidiavano il potere degli Usa sulla regione. In questo sistema collaudato, era l’Iran dello Shah a svolgere la funzione di gendarme a guardia degli interessi di Washington, ma il divampare della Rivoluzione Islamica, e il crollo del regime di Reza Pahlavi, fece venir meno il pilastro su cui si reggeva quell’oppressione. Ma fece di più: espose le ricche ma deboli petromonarchie al contagio di una Rivoluzione che aveva dimostrato la sua efficacia nel rovesciare regimi dispotici.
Da quel momento, per gli Usa e le altre Monarchie alleate divenne obiettivo primario tentare di soffocare quella Rivoluzione che minacciava l’intero sistema di dominio che assoggettava la regione. Da quel momento, lo scontro fu tra chi era disposto a tutto per mantenerlo, e chi quel sistema voleva abbatterlo. Ovvero, fra i vecchi assetti della regione e la Rivoluzione Islamica.
Fu in questo nuovo contesto che venne enunciata la Dottrina Brzezinsky, in base alla quale gli Usa si attribuivano il ruolo di gendarme dell’area, dichiarata vitale per i loro interessi, dando il via a una loro massiccia presenza militare nella regione fino ad allora ritenuta non necessaria. Tuttavia, venuto meno il pilastro iraniano, divenuto una minaccia strategica per i loro interessi, gli Stati Uniti avevano bisogno di un nuovo alleato da inserire organicamente nel proprio schema di dominio, e la scelta cadde forzatamente su Israele che, da quel momento, acquisì per Washington una valenza strategica irrinunciabile.
Questo nuovo ruolo, unito al tradizionale appoggio delle lobby ebraiche, che già influenzavano largamente lo Stato Profondo Usa, potenziò enormemente il peso di Israele nelle politiche americane. Per tale ragione, la posizione di Tel Aviv fu assai diversa da quella dello Shah, un semplice fantoccio da manovrare. Essa pose questo nuovo peso al servizio del proprio aggressivo programma di espansione a danno dei vicini, che da quel momento era libera di perseguire con l’incondizionato appoggio americano.
3) Nel suo libro si legge che l’Islam ha una forte valenza politica perché per sua formulazione non si astrae dal mondo. Le chiedo dunque, una rivoluzione che scaturisce da una religione non rischia di essere settaria e non apre la strada a potenze desiderose di dividere, manipolare e creare caos e sollevazioni contro il potere costituito?
Non è esatto sovrapporre la Rivoluzione Islamica, e meno ancora la dottrina della Resistenza derivante da essa, alla religione islamica, esse vanno riferite piuttosto all’universo valoriale espresso dall’Islam. Allo stesso modo, è errato rappresentarle come limitate al mondo sciita, fede ne fa l’accettazione di esse e il consenso riscosso presso sunniti, cristiani, yazidi, curdi e drusi, che hanno pur mantenuto la propria fede religiosa.
L’attenzione per le fasce più deboli della società, perché abbiano giustizia sociale; l’opposizione alle ingiustizie, alle diseguaglianze, alle oppressioni politiche, economiche e culturali e, di conseguenza, la lotta senza se e senza ma al capitalismo predatorio, agli imperialismi, razzismi e regimi dispotici d’ogni genere, fanno della Resistenza una dottrina di liberazione che si radica nelle popolazioni fatte oggetto d’aggressione o sfruttamento da parte di potentati economici o politici.
Il vasto e crescente consenso riscosso dalla Rivoluzione Islamica deriva dal fatto che essa è veicolata attraverso parole e concetti familiari alle masse cui si rivolge. Concetti sedimentati da tempo immemorabile in quelle società e che hanno permeato la cultura, il senso comune, la visione del mondo e la stratificazione sociale di quelle popolazioni. Concetti che appartengono alle loro società da secoli e per questo quella gente li comprende e li riconosce propri.
Per queste caratteristiche, è naturale che la Rivoluzione Islamica si sviluppi in ambiti socio-culturali che abbiano una lunga familiarità con l’Islam e non possa essere semplicemente “esportata” in ambienti come quelli occidentali, dove troppo pervasiva è stata ed è l’azione di dottrine positiviste, poi liberali e oggi post-liberali, le cui culture risultano antitetiche ai valori di quella dottrina. Tuttavia, è un fatto che ogni popolazione sottoposta a un assoggettamento, politico, economico o culturale che sia, acquisita la consapevolezza del proprio stato, possa trarre ispirazione dal mondo valoriale e dalla prassi della Rivoluzione Islamica per il proprio riscatto.
Che poi la Rivoluzione Islamica possa avere nemici è ovvio, lo sono tutti coloro che hanno interesse al mantenimento di regimi iniqui, al perpetuarsi di meccanismi di sfruttamento e prevaricazione, che seguono dottrine come il Liberalismo, in campo politico, o il Liberismo, in campo economico, che tutto ciò originano o, comunque, giustificano. Come pure sono di essa avversari i centri di potere politici ed economici che in quella Rivoluzione vedono il nemico irriducibile che si oppone alla loro oppressione.
4) Qual è la differenza tra il concetto di Jihad che ispirò la Rivoluzione Islamica e il “Jihad” acclamato, per esempio, dai terroristi dell’Isis?
Per rispondere occorre fare due premesse, la prima è precisare cosa sia il Jihad, che non significa affatto “Guerra Santa” ma piuttosto sforzo, dura applicazione per raggiungere qualcosa. Esso ha due diverse dimensioni: Jihad al-akbar (o Jihad maggiore) e Jihad al-asghar (o Jihad minore); col primo s’intende il percorso di maturazione spirituale intrapreso dal credente per fare propri i precetti dell’Islam, ed è l’aspetto largamente prioritario del Jihad; col secondo s’intende la lotta contro l’oppressione, l’ingiustizia, i mali del mondo, intrapresa dal fedele in nome dei principi islamici. Il modo in cui il credente condurrà quella lotta servirà non solo ad adempiere ai precetti del Corano, ma anche al suo percorso di purificazione.
La seconda premessa è che i terroristi dell’Isis, come di al-Qaeda, non possono essere definiti musulmani, ma piuttosto takfiri, ovvero seguaci di deliranti distorsioni dell’Islam, insomma, di grossolane eresie. Lo stesso wahhabismo lo è, tanto che, nel 2016, la Conferenza Islamica mondiale riunita a Grozny lo ha dichiarato dottrina non sunnita.
Da queste premesse diviene chiaro che il Jihad posto in atto dalla Rivoluzione Islamica, attraverso la dottrina della Resistenza, sia assolutamente coerente tanto con gli autentici principi dell’Islam quanto con una strategia universale che tenda al riscatto dei popoli oppressi, mentre quello costantemente evocato dalla galassia terroristica mondiale non abbia nulla a che spartire col Jihad, malgrado il circo mediatico globale si sgoli a spacciarlo per tale. Nei fatti si tratta di farneticazioni utili a porre un’etichetta posticcia sui disegni criminali del terrorismo e ad alimentare l’islamofobia.
5) Dopo la guerra del 2006 tra Libano e Israele, quant’è importante Hezbollah per l’integrità nazionale del Paese e cosa fa nella pratica quotidiana per ispirare unità a prescindere dalle diverse confessioni religiose presenti sul territorio?
Hezbollah ha sempre avuto chiaro che il principale pericolo per la coesione del Libano derivi dalle divisioni settarie. Facendo leva su quella linea di faglia che le potenze interessate ad occupare il Paese hanno alimentato una sanguinosa guerra civile durata 15 anni, e provano ancora a farlo. Per il “Partito di Dio”, il completo superamento di quelle divisioni è il passo necessario per l’affrancamento del Libano dagli attori esterni e dalla profonda crisi da essi causata.
Per questo, nel discorso della “Divina Vittoria” tenuto il 22 settembre a Beirut sud a poco più d’un mese dalla sconfitta inflitta ad Israele, Hassan Nasrallah, il Segretario del Partito, ha tenuto a specificare due cose: la prima era che la “Vittoria” sull’aggressione sionista non apparteneva solo a Hezbollah ma all’intero popolo libanese; la seconda, che solo l’unità della nazione avrebbe respinto i nemici del Libano, permettendo il suo affrancamento.
Un concetto che il Partito dimostrò subito con i fatti: in un Paese distrutto dalle bombe israeliane lanciò un vasto programma di ricostruzione, denominato “al-Waad” (la Promessa), per ridare ai libanesi un’abitazione e la possibilità di un lavoro, senza fare alcuna distinzione in base al credo, all’etnia o alla vicinanza politica, ma guidato solo dal criterio del bisogno. Un’attività che la Resistenza libanese prosegue giornalmente attraverso una fitta rete di fondazioni, ospedali, scuole, cooperative, per dare aiuto e servizi a un popolo che non li ha, a prescindere dall’appartenenza dei singoli.
Due anni dopo, nel maggio del 2008, Hezbollah manifestò ancora il suo attaccamento all’unità del Libano quando i centri di potere controllati da americani e sauditi tentarono di attaccarlo, ritenendo che il Partito fosse ancora indebolito dalla guerra. Quell’episodio, sottovalutato da molti commentatori, in realtà era la prova generale di quanto tentato tre anni dopo in Siria, ovvero la destabilizzazione e poi la frantumazione di quel Paese, per impedire il coagularsi di un fronte di forze che andasse da Teheran al Mediterraneo, ovvero quell’Asse della Resistenza che emergerà dalle lotte negli anni successivi.
Hezbollah respinse facilmente l’attacco dei suoi avversari, ma non prese il potere che, nei fatti, aveva ormai fra le mani. Consolidò la nazione e la riconsegnò alle sue istituzioni, rimanendo all’interno delle regole elettorali e formali che pur lo danneggiavano gravemente. E questo proprio per quel ruolo di stabilizzazione derivante da un forte senso di appartenenza alla comunità libanese nel suo complesso. Un ruolo che, negli anni successivi, ha svolto anche nelle fasi iniziali della crisi siriana, quando fu determinante per sbarrare la strada alle bande takfire che stavano per travolgere il Paese grazie ai massicci aiuti stranieri.
6) “Con la guerra afghana del 1979 e l’invasione dell’Urss, gli Stati Uniti, come si evince dal suo libro, misero in campo una delle più importanti “operazioni coperte” della storia, l’operazione “Cyclone”. Quali i punti salienti dell’operazione e ci sono analogie tra questa
strategia e la più recente formazione dello Stato Islamico e le guerre in Siria e Iraq?
Gli Usa hanno “lavorato” sistematicamente per creare un “nemico” che giustificasse la loro “Guerra al Terrore”, ovvero la sciagurata serie di aggressioni e interventi armati finalizzati a destabilizzare Paesi per meglio controllarli o per inibire l’utilizzo del loro territorio a chi reputano avversari. In Afghanistan, Iraq, Siria, Yemen, si sono impegnati a creare quel “caos creativo” (copyright by Hillary Clinton) idoneo a realizzare la Dottrina Bernard Lewis, un punto fermo per i think tank neo conservatori: la destrutturazione dell’area mediorientale perché venisse riplasmata secondo gli interessi dei centri di potere che comandano a Washington. Una teoria perfettamente in linea con la Dottrina Ynon israeliana.
La creazione di formazioni terroristiche da “pilotare da remoto”, è un “must” per lo Stato Profondo a Stelle Strisce. In questo modo, i “freedom fighters” hanno la motivazione per la propria presenza pervasiva nei teatri più disparati (Medio Oriente Africa, anche Asia – Pacifico) e, attraverso quella minaccia costruita ad arte, possono condizionare/controllare gli Stati che la subiscono. L’esempio più eclatante è stato ed è il teatro siro-iracheno, a cui sono dedicate molte pagine del volume.
di Ilaria Parpaglioni – Twitter