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Non si ferma l’escalation militare nel Mar Cinese

di Salvo Ardizzone

La militarizzazione del Mar Cinese ha compiuto un ulteriore passo avanti insieme alla tensione, già altissima, in tutta l’area.

Pechino ha schierato a Woody Island, un’isola delle Paracelso, due batterie di missili Hq-9, assai simili agli S-300 russi (e da essi in buona parte copiati). Il fatto è che quelle isole sono rivendicate anche dal Vietnam e da Taiwan, ma la Cina le ha occupate unilateralmente e vi sta costruendo sopra una serie di basi aeronavali, con la risibile scusa che si tratta di infrastrutture finalizzate alla sicurezza della navigazione.

Nella realtà, a Woody Island c’è già una squadriglia di J-11 (caccia da superiorità aerea, anch’essi scopiazzati dai Su-30 russi) basati su una pista da tre chilometri nuova di zecca, oltre a molte altre installazioni militari. Ma sono tutte quelle isole che Pechino sta trasformando in fortezze: basi per elicotteri (gli Z-18F antisommergibile, spostati lì per rispondere al potenziamento della flotta sottomarina vietnamita); ricoveri per sottomarini nucleari; centri radar; basi per truppe anfibie; etc.

E l’escalation militare non si limita a questo: nelle Spratly, un altro arcipelago sperduto nel Mar Cinese, i genieri hanno riempito di cemento e sabbia sette atolli per trasformarli in portaerei di roccia e asfalto, in barba alle rivendicazioni di altri sei Stati (Vietnam, Filippine, Taiwan, Indonesia, Malesia e Brunei).

Dietro alla noncuranza di Pechino per le proteste dei Paesi rivieraschi dinanzi ai sistematici fatti compiuti, ci sarebbero le grandi risorse di petrolio e gas nei fondali dei due arcipelaghi; ma nelle pretese cinesi di rivendicare almeno il 90% di quei mari e di agire unilateralmente come se quella sovranità ci fosse, c’è una partita più complessa e grande.

Pechino vuole affermarsi come potenza egemone nell’area scalzando Washington e demolendo il suo sistema di alleanze per affermare un proprio “ordine”. Per questo sta mettendo alla prova le reazioni degli Usa, adesso nel Mar Cinese e in prospettiva nel Pacifico, l’oceano che l’Us Navy considerava casa propria.

Dinanzi al continuo gioco al rialzo della Cina, la Casa Bianca non ha una precisa strategia, e ondeggia fra dimostrazioni muscolari (mandando navi e aerei a sfiorare le nuove basi cinesi) e inconcludenti summit con i Paesi dell’area sempre più preoccupati, stretti come sono fra la crescente minaccia militare di un nuovo imperialismo (che usa anche tutto il peso della sua economia), e l’ombrello sempre meno credibile del vecchio imperialismo yankee.

Lo si è visto recentemente in California, dove Obama s’è trovato dinanzi i leader di 10 Paesi del Sud-Est asiatico tutt’altro che compatti nell’allinearsi ad una strategia di Washington che, nei fatti, non esiste.

La conseguenza delle continue azioni unilaterali della Cina, e della sua crescente insofferenza ad ogni critica, è l’aumento esponenziale della tensione in un’area già resa instabile dalla presenza di un regime come la Corea del Nord.

In realtà, né gli Usa, né tanto meno Pechino cercano lo scontro, ma in un simile scenario è solo questione di tempo perché accada un incidente dalle conseguenze potenzialmente dirompenti. Per capirci, senza dover arrivare ad uno scontro aperto (che nessuno vuole), basterebbe un minimo gesto ostile fra le due potenze per sprofondare la finanza mondiale in una crisi devastante. E’ inevitabile che con la corsa agli armamenti che ormai sta coinvolgendo tutta l’area, quei mari stiano divenendo una micidiale polveriera pronta a esplodere.

Come già detto, è la conseguenza del cozzo di due imperialismi: il nuovo, quello rampante di Pechino, deciso a giocarsi il suo futuro in quelle acque; il vecchio, quello in declino di Washington, ma più che mai pericoloso perché sa che una sconfitta determinerebbe la fine del suo sistema di potere globale.

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