Macron, l’avvoltoio tra le rovine di Beirut
La rapida e arrogante visita del presidente francese, Emmanuel Macron a Beirut, ha suscitato molte polemiche oltre che sgomento. Il ritorno dell’autore sulla scena del crimine è il principio accettato in tutti i casi penali. Un principio emerso durante la visita del presidente francese a Beirut dopo la devastante esplosione al porto della capitale libanese. Purtroppo, Macron pensa ancora che il Libano sia una colonia francese, ma sbaglia di grosso. È arrivato a Beirut non tanto per fornire aiuti internazionali al Libano, ma per imporre un nuovo governo “indicato” dall’Occidente. Ebbene si, dettare una nuova agenda politica scelta da potenze straniere per il “bene” del Libano. Questa è stata la vera motivazione del suo precipitoso viaggio a Beirut.
Macron detta i tempi
Fissando una scadenza per i politici libanesi al 1° settembre, il presidente francese ha sfacciatamente affermato che si assumerà personalmente la responsabilità politica per l’attuazione delle riforme. Cosa intende esattamente Macron con questa affermazione? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo tornare un po’ indietro, nell’aprile 2017, quando i libanesi si stavano preparando per le elezioni parlamentari dopo una pausa di quattro anni.
A quel tempo, il Libano stava lottando con problemi economici e il suo governo era sull’orlo della bancarotta con cento miliardi di dollari di debiti. L’allora primo ministro libanese, Saad Hariri, stava tenendo una conferenza internazionale chiamata “Cider 1” ospitata dalla Francia per cercare aiuto internazionale per superare la crisi. Hariri dichiarò agli elettori libanesi alla conferenza che il loro voto alle imminenti elezioni sarebbe stato determinante per ottenere l’impegno finanziario internazionale fatto alla conferenza, inclusi 11,8 miliardi di dollari in aiuti e la parziale cancellazione del debito. Di conseguenza, la Francia si impegnò a fornire 150 milioni di euro in aiuti al Libano e un prestito di 400 milioni di euro, oltre ai contributi di altri Paesi e istituzioni finanziarie internazionali.
Il Libano ha scelto la Resistenza
Un lungo elenco di promesse il cui adempimento dipendeva dalla scelta del popolo libanese. Queste promesse, insieme all’implementazione di un sistema di acquisto di voti durante le elezioni, che costò milioni di petrodollari sauditi, erano un processo complesso progettato per fare pressione sul popolo libanese e guidarlo sulla via politica dell‘Occidente. Nonostante le promesse di comprare voti, il popolo libanese fece la sua scelta e il risultato delle elezioni portò alla vittoria decisiva dei gruppi politici vicini all’Asse della Resistenza. Dopo l’annuncio dei risultati elettorali, i gruppi dell’asse occidentale, ebraico e arabo annunciarono pubblicamente che a pagare il prezzo di questa scelta dovesse essere il popolo libanese.
Dopo la formazione del nuovo parlamento e governo, non solo queste promesse finanziarie rimasero sulla carta, ma iniziarono sanzioni bancarie globali con il pretesto di bloccare l’accesso finanziario di Hezbollah e, naturalmente, con l’obiettivo di esercitare la massima pressione sulla fragile economia del Libano distruggendone i mezzi di sussistenza.
Proteste manovrate
Oltre all’escalation della pressione, il fallito processo elettorale questa volta si capovolse, accusando il governo di inefficienza e corruzione sfruttando le proteste popolari contro la corruzione dei politici che fecero precipitare l’economia del Paese in rovina. Questi “attori” internazionali istigarono la gente causando una rivolta che bloccò per settimane le strade di Beirut e le strade principali del Paese.
La realtà della protesta popolare, tuttavia, era la corruzione dei politici che governavano il Libano dopo la guerra civile, ma le stesse correnti corrotte che erano state tagliate fuori dopo l’insediamento del nuovo governo, cercarono di guidare le proteste per determinare le dimissioni del governo e lo svolgimento di elezioni anticipate.
All’epoca dei fatti, Saad Hariri si dime apparentemente per il bene del popolo, ma in pratica si dimise da primo ministro per sfuggire alla responsabilità e aprire la strada al completamento del prossimo enigma, lo scioglimento del parlamento. Un sogno che non si avverò grazie alle scelte del parlamento, permettendo così di eleggere rapidamente il nuovo premier.
Macron offre aiuti in cambio della sudditanza
Adesso, con la “misteriosa” esplosione al porto di Beirut, si è ritornati all’ora zero e Macron è ricomparso nel ruolo di “salvatore” e non solo. Infatti, Mike Pompeo ha chiamato Saad Hariri e ha promesso aiuti. Il regime sionista ha alzato ipocritamente la bandiera libanese a Tel Aviv per esprimere la sua “solidarietà”.
Il Libano, un Paese che ha perso metà della sua capitale a causa di questa esplosione che ha provocato almeno 158 morti e cinquemila feriti, si trova oggi ad affrontare una situazione difficile e cruciale. Macron ha ora posto la condizione per gli aiuti internazionali come riforma politica, affermando che non permetterà alle persone corrotte di ottenerli (da quale pulpito). Ovviamente, le riforme volute dall’Occidente sono sempre le stesse: rimuovere Hezbollah dalla scena politica libanese e disarmare la Resistenza.
Processo Rafiq Hariri
Si vocifera la formazione di una squadra investigativa internazionale per indagare sulle cause dell’attentato di Beirut. Una squadra investigativa simile formata 15 anni fa dopo l’assassinio di Rafiq Hariri, il cui processo è iniziato ieri, due dei cui imputati sono ancora vivi. Questo processo si basa sulle testimonianze di falsi testimoni e sulle intercettazioni degli imputati. La rete telefonica in cui è stata provata l’installazione dell’equipaggiamento di spionaggio del regime sionista e il suo manager sono fuggiti in Israele dopo questa rivelazione!
Cosa ci aspetta il futuro? Nessuno attualmente è nelle condizioni di poter avanzare ipotesi. Sicuramente, dal 4 agosto tutto è terribilmente cambiato e qualsiasi scenario, anche quello più drammatico, è da tenere in considerazione.
di Yahya Sorbello