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Macedonia, la nuova polveriera dei Balcani

di Salvo Ardizzone

La Macedonia è un piccolo Paese dei Balcani, uno dei tanti nati dalla dissoluzione della Jugoslavia: è grande quanto la Sicilia, con una popolazione di poco più di 2 milioni di abitanti che vive su un territorio da sempre fra i più poveri e arretrati della regione.

Al tempo delle guerre che segnarono la fine sanguinosa del sogno di Milosevic di una grande Serbia, gli furono risparmiati gli orrori che investirono Croazia, Bosnia e dopo Serbia e Kosovo; solo nel 2001, conclusasi la sciagurata aggressione della Nato a Belgrado per strapparle quell’ultimo territorio, come coda velenosa del conflitto conobbe una guerra civile breve, ma che comunque lasciò sul campo centinaia di morti.

Fu un ennesimo tentativo di destabilizzazione, condotto da elementi albanesi dell’Uck entrati dal Kosovo, che, reiterando la scusa di strappare quell’etnia ad una persecuzione che non c’era e sostituendosi con le armi alla dialettica politica, intendeva mettere in crisi un piccolo Paese, colpevole di avere legami troppo cordiali con la Russia e simpatie troppo blande verso gli Usa e la Nato.

Il fallimento della prova di forza dopo i successi iniziali dei miliziani (fu la Nato a fermare le forze di sicurezza macedoni, permettendo che le bande dell’Uck potessero tornare indisturbate nel Kosovo) e il successivo accordo politico di Ocrida dell’agosto 2001, con cui si stabiliva una condivisione del potere fra l’etnia macedone (largamente maggioritaria) e quella albanese, cristallizzarono un faticoso equilibrio fino ai giorni nostri.

In questi anni i Governi che si sono succeduti, fiutato il vento, senza rinnegare gli ottimi rapporti con Mosca hanno cercato di mettersi al riparo dalle manovre di destabilizzazione chiedendo di aderire sia alla Ue che alla Nato, ma entrambe le richieste sono state bloccate dal veto di Atene. Per la Grecia, è illegittimo l’uso del nome Macedonia che, storicamente, indica una regione greca; inoltre, per ragioni analoghe, contesta i simboli sulla sua bandiera e infine dissente su alcuni passi della sua costituzione.

Sia come sia, il Paese è rimasto in un limbo, con vicini tutt’altro che amichevoli, a sopravvivere a fatica in un mondo sempre più complesso e con tanti a soffiare sul fuoco: solo negli ultimi quattro anni si sono registrate tre ondate di tumulti a sfondo etnico. Tuttavia, è con le elezioni dell’aprile 2014 che l’equilibrio si rompe, aprendo una profonda crisi che vede contrapposti l’attuale premier Gruevski ed il leader dell’opposizione Zaev che contesta la regolarità di quel voto.

Fra accuse reciproche e manifestazioni di piazza lo scontro è andato crescendo in un Paese spaccato finché, nel febbraio scorso, è scoppiato il singolare scandalo delle intercettazioni: Zaev, preannunciandolo con largo anticipo, ha cominciato a diffondere il testo di intercettazioni che parlano di un coinvolgimento del Governo in frodi elettorali ed interferenze nella magistratura e nei media; non mancano gare d’appalto falsate ed incriminazioni d’avversari politici. Il fatto ha messo sotto pressione il Governo ed ha provocato uno stallo politico pericoloso cavalcato dalle opposizioni.

Intendiamoci: Gruevski è tutt’altro che immune da critiche, ma quelle registrazioni che compaiono dal nulla, senza che nulla si sappia della loro provenienza, sembrano fatte apposta per mettere in crisi un Governo e destabilizzare un Paese. Ad aggravare la situazione, il 9 maggio scorso la cittadina di Kumanovo per due giorni è stata teatro di violenti scontri fra le forze di sicurezza e gruppi di miliziani albanesi infiltratisi dal vicino Kosovo, che hanno causato 8 morti e 37 feriti fra i reparti della polizia, 14 morti e una trentina di arrestati fra i terroristi che, alla fine, si sono ritirati oltre confine portandosi dietro i feriti. In pratica una battaglia.

L’opposizione è insorta sostenendo che si sia trattato di una provocazione montata ad arte per distogliere l’attenzione dallo scandalo delle intercettazioni; resta il fatto oggettivo che lo scontro sia stato violento e che, anche se a Kumanovo c’erano dei fiancheggiatori, le bande si siano infiltrate dal Kosovo come nel 2001.

Non è un caso che il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, abbia accusato l’opposizione e le solite Ong finanziate dall’Occidente di voler destabilizzare il Paese, ordendo l’ennesima “rivoluzione colorata” manovrata da oltre Atlantico per rovesciare un Governo, magari non esente da colpe, ma legittimo.

Sotto la spinta della situazione, e con l’ennesima mediazione della Ue, i colloqui fra le parti sono ricominciati a fine maggio e il 14 luglio si è siglato un complicato documento finale che prevede la formazione di un Governo di transizione, la fine del boicottaggio parlamentare delle opposizioni ed elezioni straordinarie fissate per il prossimo aprile. Oltre che da Gruevski e da Zaev, l’accordo è stato controfirmato dai leader dei due partiti che rappresentano l’etnia albanese.

È difficile prevedere se i patti reggeranno fino in fondo, né se le firme apposte dai leader albanesi basteranno ad evitare ulteriori scoppi “spontanei” di violenza a base etnica. Per come si sono svolte le cose fin’ora (l’esempio ucraino è sempre lì) è probabile che tutto dipenderà dallo sviluppo degli eventi: se l’opposizione dovesse fiutare la vittoria avrà tutto l’interesse a stare ai patti, in caso contrario c’è da star certi che ricominceranno scontri armati, nuove intercettazioni, moti di piazza sovvenzionati dalle immancabili Ong e così via: insomma, tutto ciò che serve all’ennesima “rivoluzione in nome della democrazia e dei valori dell’Occidente”.

Ultima notazione: Gruevski s’era detto pienamente disponibile a far passare sul territorio macedone i gasdotti russi per farli giungere in Serbia, prima il tramontato South Stream ed ora il progettato Turkish Stream, suscitando non poca rabbia a Washington e in diversi ambienti di Bruxelles. In geopolitica le coincidenze non esistono.

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