Lotta alla povertà, dati in diminuzione
La lotta alla povertà è uno di quei argomenti che tornano alla ribalta saltuariamente, ed è di questi giorni la notizia che negli ultimi 25 anni le persone che sopravvivono con meno di due dollari al giorno sono la metà e che, una buona notizia, continueranno a scendere nei prossimi anni. Se i dati fanno ben sperare è anche vero che una soluzione del problema è ancora ben lungi dall’essere trovata visto l’avvicinarsi del 2030, anno in cui la povertà estrema si dovrebbe eradicare, ma per farlo bisogna occuparsi degli Stati fragili.
Le proiezioni indicano che oltre 400milioni di persone, nel 2030, vivranno ancora in estrema povertà, la maggior parte di questi Stati sono principalmente concentrati geograficamente nell’Africa Subsahariana con una percentuale dell’85% e di cui il 40% in Nigeria e nella Repubblica Democratica del Congo. Si può definire quindi uno Stato fragile quando è totalmente o parzialmente assente un contratto sociale tra la popolazione e le autorità, dove manca un minimo assetto istituzionale legittimo e dove è del tutto impossibile implementare le politiche sociali come sanità ed educazione.
I 25 anni in questione non devono sembrare un arco di tempo ampio, ma nella visione geopolitica si tratta di un tempo molto ristretto ed è qui che la notizia positiva va cercata visto che l’umanità ha compiuto un balzo in avanti che ha riguardato soprattutto lo sviluppo umano che si è avuto dal 1990 al 2015, frazione temporale nella quale il numero di persone che vivono con meno di due dollari al giorno si è dimezzato passando da due miliardi a circa 700milioni. Attenzione, si parla di un numero ancora incredibilmente alto ed inaccettabile, ma è innegabile che una qualche forma di progresso sia avvenuto visto e considerato che negli anni ’80 la percentuale, che adesso è il 10% della popolazione, riguardava il 40% della popolazione globale.
Eppure la data messa in agenda dalle Nazioni Unite, il 2030, sembra una vision più che una mission e questo obbiettivo sembra proibitivo se non vi saranno significative correzioni di rotta e già nel 2011 la comunità internazionale aveva sottoscritto un “new deal” che è rimasto lettera morta per mancanza di volontà politica, visto e considerato che Stati Uniti ed Unione Europa non hanno alcun interesse a portare avanti tali politiche.
Sarà importante quindi, in vista del 2030, portare avanti almeno tre questioni principali come l’allineamento della politica diplomatica, di difesa e dello sviluppo che è il punto caldo dove il “new deal” ha fallito. Un recente studio congiunto dell’Onu e della Banca Mondiale ha quantificato tra i 5 e i 70 miliardi di dollari il risparmio garantito da efficaci misure preventive per evitare crisi e promuovere la pace. Questi soldi potrebbero poi essere investiti in settori chiave come la sanità e la spesa sociale.
Partendo dal presupposto che non sarà mai possibile conoscere appieno il Paese dove si interviene, sappiamo che un approccio “dall’alto” non ha funzionato in passato e difficilmente potrà farlo in futuro. Successi duraturi saranno possibili solo con un coinvolgimento totale fra gli attori locali e le istituzioni internazionali. Tutti gli interventi dovranno essere adattati al contesto locale e strutturati per rispondere ai bisogni reali della popolazione.
di Sebastiano Lo Monaco