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Lo “schiaffo” georgiano non recepito dall’Occidente

di Mauro Indelicato

Che fine ha fatto Mikheil Saakašvili? Chissà se qualche lettore di voi se lo ricorda: è stato, a metà degli anni 2000, il “Matteo Renzi” della diplomazia internazionale. Giovane, pettinato, sempre sorridente, moglie olandese, incarnava il “mito occidentale” nella sua Georgia, paese del quale è presidente dal gennaio 2004. E’ ancora a capo del governo di Tblisi, ma le sue mire di protagonismo e di uomo forte del Caucaso, sono state drasticamente ridimensionate negli anni, fino a scomparire, cadendo in fondo assieme alla sua fama di “padre della democrazia” della Georgia. L’errore, tanto umano quanto da dilettante della politica, lo ha compiuto esattamente cinque anni fa; erano in corso le Olimpiadi di Pechino, quando il bel Mickeil, in un impeto di follia o forse perché aizzato da qualche suo sprovveduto consigliere straniero (ed a Tbilisi in quei giorni ne giravano parecchi), iniziava a bombardare l’Ossezia del Sud, repubblica grande quanto la provincia di Agrigento, formalmente in territorio georgiano, ma de facto indipendente dal 1992.

Saakašvili voleva riannettere alla Georgia questo piccolo territorio, ma non aveva fatto i conti con la resistenza sia della popolazione locale, ma soprattutto con la presenza dei militari russi, dispiegati proprio nel 1992 come forza di interposizione internazionale. Ma per capire cosa c’era in ballo in questo piccolo ma doloroso conflitto estivo, bisogna tornare al novembre del 2003, quando a Tbilisi il giovane Mickeil si metteva a capo della cosiddetta “rivoluzione delle rose”, che con l’assedio al parlamento durato due settimane, costringeva alla resa l’ex presidente Ševardnadze, in carica dall’indipendenza del paese e uomo molto vicino a Mosca. Da quel momento in poi, i media occidentali iniziavano a riempire di elogi Saakašvili, intervistandolo con la bella moglie olandese sempre al suo fianco, proclamandolo come il nuovo paladino della libertà, il nome sul quale gli Usa esportatori di “democrazia” (ricordiamo che erano passati appena 3 mesi dalla guerra in Iraq) potevano fare affidamento e non mancavano neanche i riferimenti al presunto coraggio che aveva lo stesso Saakašvili nel contrapporsi al “feroce” Vladimir Putin.

La rivoluzione della rose, inquadrandola nel contesto internazionale, era la prima di una più che sospettabile azione di sabotaggio antirusso effettuata in quei mesi da parte di chi aveva interesse a creare una zona di cuscinetto attorno a Mosca; gli Usa di George W. Bush in particolare, volevano attirare nella propria orbita paesi fedeli al Cremlino ed iniziavano a finanziare, direttamente e non, movimenti che da filo governativi diventavano improvvisamente oppositori del tiranno di turno. E’ il caso della “rivoluzione arancione” di Juschenko in Ucraina a 12 mesi da quella georgiana, poco dopo era la volta del Kirghizistan, poi ancora ci provarono Azerbaijan, Bielorussia, Uzbekistan, Armenia, ma con scarsi risultati, visto che quelle popolazioni non riuscivano ad appassionarsi più di tanto a programmi di occidentalizzazione forzata. Emblematico il caso ucraino: Viktor Jouskenko è stato primo ministro e governatore della banca centrale ucraina, prima di mettersi addosso (o farsi mettere addosso, meglio dire) la sciarpa arancione, rimediare un presunto avvelenamento e diventare il paladino della democrazia ucraina, finanziata dai Dollari Usa e propagandata dai media di tutto l’occidente.

Tornando a Tbilisi, quel movimento di popolo fece breccia nella società georgiana e dopo le dimissioni dell’ex presidente post–sovietico, Saakašvili coronava il suo sogno di diventare presidente della Georgia. Già dal discorso di giuramento, si intuiva una linea politica apertamente filo Usa, garantendo programmi di massicce privatizzazioni, di apertura ad investimenti dell’Fmi, mentre l’apice del delirio del giovane presidente, si aveva quando nei discorsi alla nazione, poneva accanto ad una rinnovata bandiera georgiana, quella dell’Unione Europea. Da allora in poi, tutti i media puntavano sul marketing della Georgia democratica e libera, che lotta contro la corruzione ed il malcontento popolare; nessuno invece, prestava attenzione al fatto che il governo di Saakašvili iniziava a svendere il suo paese agli Usa ed agli oligarchi locali finanziati da Washington e Bruxelles. Senza contare poi, che solo nel 2004 la Georgia incassava da Bush junior qualcosa come 300 milioni di Dollari, con la promessa di fare della repubblica caucasica il classico “terreno ideale per investimenti stranieri”, balzati da 20 a 900 milioni di Dollari tra il 2005 ed il 2006, gran parte dei quali ad opera di diverse imprese statunitensi che scavavano nel fondo del barile georgiano, il cui governo iniziava a privatizzare anche la gestione dell’acqua e le ferrovie.

Gli Usa quindi, non solo si prendevano una bella fetta di economia georgiana, ma contribuivano a dare alla Russia un senso di accerchiamento molto evidente; così, forse convinto dell’appoggio Nato o comunque dell’occidente, o forse spinto dal delirio di onnipotenza, visto che nel frattempo aveva di fatto annientato l’opposizione a colpi di intimidazioni o misteriosi suicidi, il bel Saakašvili iniziava a lanciare bombe anche sull’ospedale di Tskhinvali, capitale dell’Ossezia del Sud. Era, l’8 agosto del 2008; la Georgia iniziava a penetrare dentro la piccola repubblica a ridosso della Cecenia, tentando di riconquistarla militarmente e farla ritornare nell’orbita di Tbilisi e quindi anche degli Usa. La Russia fino a quel momento, aveva lasciato giocare Saakašvili; pur conoscendo gli obiettivi Usa, pur intuendo le mosse che da qualche anno a questa parte miravano a togliere dall’orbita di Mosca i propri alleati a suon di denigrazione mediatica e di rivoluzioni misteriosamente finanziate allegramente, Putin prima e Medvedev poi, avevano deciso di rimanere a guardare ed aspettare l’evolversi della situazione.

Quando però, vedevano carri armati georgiani varcare il confine e soprattutto quando anche dal confine russo si iniziavano a sentire gli echi delle bombe che cadevano sull’Ossezia del Sud, allora la Russia ha deciso di reagire ed iniziare a rispondere alle provocazioni. Ecco cosa dunque c’era in ballo nell’Ossezia del Sud; l’avamposto principale degli Usa nella bollente regione del Caucaso, aveva iniziato ad avere mire anche militari e Mosca non poteva rimanere a guardare. Lo smacco georgiano nel conflitto è stato talmente forte, che nel giro di pochi giorni i blindati russi arrivavano a circondare anche la capitale Tbilisi e l’esercito di Saakašvili, nonostante soldi ed armi fatti arrivare da occidente, non riusciva più a controllare la situazione. Nel giorno di ferragosto, veniva fatto firmare un cessate il fuoco, che prevedeva il ripristino della situazione pre bellica, con i blindati russi però schierati come cuscinetto al confine tra la Georgia e l’Ossezia del Sud, riconosciuta come Stato indipendente da Mosca pochi giorni dopo. Per Washington, vedere i carri armati russi nella periferia della capitale da dove erano partite tutte le rivoluzioni, o presunte tali, antirusse, è stato uno schiaffo molto forte; da allora in poi, guarda caso, non ci fu più alcuna rivoluzione colorata, non uscì fuori più nemmeno un presunto leader democratico finanziato dall’occidente.

La Russia, dal canto suo, rimetteva le carte in chiaro: politicamente e militarmente, dimostrava di saper reagire ad ogni provocazione e la guerra estiva del 2008, contribuiva anche a far cadere in Ucraina ed in altre parti i governi filo occidentali. Il bel Saakašvili invece, restava al timone della sua Georgia, ma da allora in poi ha preferito più coltivare il suo orticello di Tbilisi che avventurarsi in campagne mediatiche in giro per l’Europa a portare l’esempio della “sua” democrazia georgiana; a livello interno, deve far fronte ad un crescente malcontento, che l’anno scorso ha portato a nuove sollevazioni antigovernative, la cui repressione costava la vita a diverse persone, tra poliziotti e manifestanti. L’occidente sembra non aver imparato nulla dalla lezione georgiana; ancora oggi, in Siria per esempio, si finanziano presunti “liberatori” a discapito di interessi contrari ad Israele ed agli Usa: anche a Damasco, Washington ed i suoi “alleati” si apprestano ad incassare un nuovo schiaffo, e Mosca si prepara ad un’altra vittoria politico–militare.

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