Lo schiaffo delle elezioni in Francia
È stato un colpo secco a chi non ha intenzione d’ascoltare, a chi non vuol cambiare e pensa di continuare come sempre. A un’Europa, che è diventata ben diversa cosa da quella cui pensava chi la fondò; una creatura senz’anima, in mano a burocrati, a banche, al potere dei più forti, che la usano a seconda delle convenienze, scordandosi dei popoli e trattando i cittadini come numeri. A una politica autoreferenziale, incapace di cambiare, d’essere espressione della propria gente, di tracciare un progetto che sia espressione del Paese e motivare i sacrifici che si chiedono.
A farla breve, le Amministrative in Francia sono state l’occasione per un urlo che chiede sviluppo, lavoro, equità fiscale, sicurezza, identità nazionale (che è come dire rispetto per le proprie radici che si vedono in pericolo insieme a tutto il resto).
Il Fronte Nazionale di Marine Le Pen s’è fatto megafono (ma sarebbe potuto essere chiunque altro) e la gente l’ha scelto: nei 600 comuni in cui s’è presentato sui circa 36mila dell’intera Francia, ha raccolto la media di circa il 16,5% dei voti, avvisaglia della valanga che ci sarà a maggio.
I partiti tradizionali ne escono assai male, con un Partito Socialista che non riesce a raggiungere il 38%, pagando un governo contraddittorio che nella crisi non sa scegliere una strada, offrire un progetto, un obiettivo chiaro. Neanche il Centrodestra riesce a sfondare; con un 46,5% in termini percentuali, lascia anche lui per strada tanti elettori in termini reali. Inoltre, quasi 4 francesi su 10 non sono andati a scegliersi il sindaco: non era mai accaduto, è il segno d’una sfiducia profonda, d’una frattura fra chi è amministrato e chi si offre d’amministrare.
Ciò che è accaduto in Francia è il preludio di ciò che a maggio accadrà in tanta parte d’Europa: i popoli piegati da una crisi che non li lascia, non vedono sbocchi e urlano basta a politiche ottuse, che parlano solo d’una austerità che li sta uccidendo.
S’è detto che è una vittoria del populismo, e tutti i movimenti euroscettici d’Europa si fregano le mani in attesa di una vittoria annunciata. Ma i popoli non son divenuti all’improvviso populisti; si sta male e ognuno grida il proprio disagio unendolo a quello degli altri. È protesta, non scelta politica che risulta nei fatti negata.
Ma è l’Europa il problema e il populismo la soluzione?
Il problema è “questa” Europa, non l’Europa (ben altra cosa nella mente di chi la volle), è l’Europa delle banche non quella possibile dei popoli, delle aree di sviluppo omogeneo e condiviso. E il Populismo non è la soluzione; è protesta, certo, ma dopo l’urlo cosa vuole costruire? I programmi son poco più che slogan in cui ciascuno coglie le proprie esigenze particolari; è la somma delle richieste (o proteste) di ciascuno, ma non c’è progetto complessivo che le leghi. Quali sono i valori per operare le scelte? La voce che più grida o che ha più rabbia? O la voglia esasperata di semplificazione che non porta a nulla?
Il fatto è che il disagio, lasciato senza risposta, genera quella voglia di seguire chiunque prometta di cambiare, è comprensibile, ma è una strada che fuori dalla protesta non ha mai portato a nulla.
È la Politica, ma quella vera, quella da troppo tempo assente, quella che parla ai cittadini e se ne fa interprete che deve tornare, quella che parla ai popoli e non ai singoli.