Lo scettro del petrolio passa di mano: è il tramonto dell’Opec?
Pare di si, sconfitta dalla propria avidità. Per decenni, i dodici Paesi produttori consorziati hanno dettato la politica energetica al mondo intero, tenendolo sotto continuo ricatto ed estorcendo somme enormi con un prezzo tenuto artificiosamente alto.
Il fatto è che quei margini spaventosi, se da un canto hanno riversato fiumi di denaro sui Paesi produttori, dall’altro hanno reso sempre più conveniente investire nel settore. Con un prezzo del greggio stabilmente a cavallo dei 100 $ al barile (pari a 42 galloni americani, 158,99 litri), tutte le compagnie petrolifere si son lanciate in nuove ricerche e prospezioni, poiché il valore di ciò che avrebbero trovato avrebbe compensato di gran lunga le spese ingenti. Ed han trovato tanto; in tutto il mondo è un fiorire di nuovi ritrovamenti e nuovi campi, di quel petrolio di cui nel 73’ le solite cassandre disinformate predicevano l’estinzione a breve.
Ma c’è un altro elemento più importante: il fatto che il valore del barile ha reso conveniente (e tanto!) l’estrazione di shale oil. È quello che si estrae in modo diverso dalla tecnica tradizionale: dalle sabbie bituminose (come in Canada) o soprattutto dalle scisti, cioè da formazioni rocciose in cui è imprigionato (come quelle americane); si ottiene fratturando la materia con potentissimi getti d’acqua, sabbia o ceramica unite ad agenti chimici che liberano il greggio. È la tecnica del “fracking”, assai più costosa di quella ordinaria, ma la produzione risulta già remunerativa se il prezzo si mantiene nella forbice fra i 50 e i 65 $ a barile, e con una quotazione mantenuta fissa sui 100!…chi se ne importa anche dei gravi problemi ambientali che comporta! Inoltre, l’alto prezzo del greggio ha stimolato gli investimenti sull’utilizzo del gas, spostando massicciamente i consumi in diversi Paesi, e se si considera che anche di gas sono stati trovati enormi giacimenti, e che accanto allo shale oil c’è lo shale gas…
Se il prezzo del greggio si mantiene ancora alto, ma come vedremo non dappertutto, ciò è dovuto al fatto che al momento almeno 4 dei grandi produttori tradizionali sono fuori gioco: Libia e Nigeria hanno la produzione ridotta drasticamente per gravi problemi interni; l’Iraq ha problemi analoghi e stenta a ripartire anche per gli immensi investimenti che servirebbero per ammodernare strutture vetuste e vandalizzate; l’Iran è stato fin’ora sotto embargo, ma ne sta già uscendo, e anche il solo milione di barili al giorno appena autorizzato, si farà sentire in un mercato saturo. E gli altri stan già facendo e faranno di tutto per riprendere almeno in parte l’estrazione, di cui hanno un disperato bisogno.
Né è da pensare che l’Arabia Saudita (fin’ora leader indiscussa dell’Opec) riesca ad imporre tagli di produzione, perché le quote di mercato lasciate libere verrebbero subito coperte da altri: è il liberi tutti, e dinanzi al continuo crescere dell’offerta, si aprirà a breve una corsa al ribasso che deprimerà i prezzi e di parecchio.
In prospettiva, chi è messa peggio è proprio Riad, che più volte nel 2013 ha cercato inutilmente la sponda della Russia (altro enorme produttore), in nome di un comune scopo che non c’è, perché diversi sono i mercati e gli interessi. Per i Sauditi il mercato americano è il principale, e ci tengono a mantenerlo secondo il vecchio principio (anche se da qualche tempo appannato) di forniture di greggio contro garanzia di sicurezza. Il fatto è che a causa delle eccedenze di produzione americane, l’Argus Sour Crude Index (l’indice del greggio sulle coste americane del Golfo del Messico) è di circa 20 $ al barile più basso di quello del Mare del Nord (Brent) o del Dubay, sicché, per mantenere le quote di mercato (e il legame strategico con gli Usa), son costretti a vendere con lo sconto. E se si considera che già nel 2015 gli Usa diverranno i primi produttori al mondo con 11 ml di barili al giorno, mentre i Sauditi hanno consumi interni in crescita vorticosa (oltre 3 ml di barili al giorno nel 2013), trainati da impieghi scriteriati (vedi piste da sci coperte nel deserto o immense aree refrigerate a gelo); i loro campi, che stanno già spremendo, non aumenteranno granché la produzione; e, malgrado le ricerche, non hanno gas, quel gas che ha e che controlla Putin. E veniamo alla potenza che sta li sta mettendo in crisi.
La Russia ha puntato tutto sull’energia, affidandosi alle Big Oil, le compagnie che assicurano chiavi in mano investimenti e collocamenti ottimali sui mercati mondiali (oltre che colossali mazzette); mette in produzione sempre nuovi campi nell’Artico e in Siberia e ha sterminate potenzialità di shale oil e shale gas, anche superiori a quelle Usa e poi ha gas, e tanto; e utilizza questa risorsa come un’arma, nel Caucaso, in Europa, nell’Asia Centrale e Orientale. Mentre non ha interessi nel mercato americano, che è il più saturo, taglia l’erba sotto i piedi agli altri (Arabia in testa) spedendo gas e petrolio in Oriente, dove il prezzo degli idrocarburi è ancora pieno. E per il consumo interno in crescita, è sempre il gas a saziare la fame, lasciando intatta la forza del petrolio da gettare in campo.
In questo modo l’Opec è già in frantumi; altro che cartello! Già emergono le lotte sanguinose per assicurarsi spazi sempre più ristretti, e le manovre sfacciate dell’Arabia Saudita per mantenere l’embargo dell’Iran, o per destabilizzare Iraq e Libia e impedir loro di rientrare in produzione. Ma son battaglie disperate quanto alla lunga inutili, c’è troppo in gioco, e gli sceicchi hanno dinanzi lo spettro della sconfitta: inaridito il fiume immenso di ricchezza che hanno sperperato follemente in questi anni, i loro stati rischiano di tornare gli scatoloni di sabbia che erano e son rimasti.
Nel breve è la Russia che vince, indubbiamente, ma…ma le sue infrastrutture cadono a pezzi, gli investimenti (enormi) vengono dirottati sugli armamenti (in crescita verticale con 69 mld di $ nel 2013 e una previsione di un +44% nei prossimi 3 anni) e in spese faraoniche (tipo i 50 mld di $ per le olimpiadi di Sochi), ben poco al resto, allo sviluppo dell’economia reale; uno stato di 200 milioni di abitanti, non si regge solo sulla produzione di energia, alla lunga collassa su un mare di petrolio. E allora?
E allora resteranno solo gli Usa a godere della dissennatezza altrui, con energia a costo più basso al servizio di un’economia che tira e con le Big Oil sempre più grasse. Spiace dirlo (oh se spiace!) ma in questo gioco di predoni, il sistema industriale e finanziario dello Zio Sam rischia di rimaner l’unico a ridere, alla fine di una partita suicida, iniziata dall’avidità dell’Opec e giocata, come sempre, sulla pelle dei popoli. Infatti, a parte l’autentico “pizzo” inflitto al mondo, neanche i popoli protagonisti della contesa han di che ridere: né il popolo americano; son le Big Oil quelle a far profitti colossali, alla gente rimarrà un ambiente devastato dall’estrazione di shale oil e shale gas; né arabo, con immense ricchezze dissipate nelle follie d’un pugno di sceicchi che nulla lasceranno; né russo, con i profitti spartiti fra oligarchi o spesi in armi e nei sogni di Putin di ritrovata grandezza imperiale.
Quanto è lontano l’Eni di Mattei, coi suoi progetti di sviluppo condiviso con i popoli che uscivano dal colonialismo, da quest’ottica di pura rapina!