L’Intifada di Gerusalemme chiude il 2015 in Palestina
L’Intifada di Gerusalemme o “dei coltelli”, come l’hanno battezzata i media di tutto il mondo, è stata la rivolta che ha caratterizzato gli ultimi mesi del 2015 in Israele e Palestina. Le cause sarebbero molteplici e tutte affondano le radici in decadi di occupazione israeliana, ma il fattore scatenante sarebbe, come accadde nel 2000, la sovranità su Gerusalemme, sull’area dove sorge la Moschea di Al-Aqsa per gli uni, il Muro del Pianto per gli altri. Diversamente dalla seconda Intifada però, la rivolta non è stata guidata da nessuna fazione politico-religiosa e si è basata, più che altro, su azioni individuali di singoli palestinesi. Gli episodi di violenza a Gerusalemme, Tel Aviv, Be’er Sheva e in Cisgiordania non hanno avuto alla base nessuna lotta di civiltà e tanto meno sono state mosse dalla spinta religiosa.
L’Intifada di Gerusalemme è stata manifestazione della continua espansione degli insediamenti israeliani, della discriminazione e della totale dipendenza economica dei palestinesi dallo Stato ebraico e della frustrazione collettiva di tutti per non aver beneficiato di un processo di pacificazione. Le principali città dove sono stati effettuati gli attacchi sono Gerusalemme, dove la colonizzazione pregiudica la costituzione di uno Stato palestinese, ed Hebron, una delle città più importanti della Cisgiordania dove 500 coloni israeliani hanno assediato i palestinesi e dove le provocazioni e gli scontri sono all’ordine del giorno nel più totale silenzio mediatico.
Diversamente dalla prima e dalla seconda Intifada, quella di Gerusalemme non ha avuto dei mediatori politici in grado di farsi portatori delle rivendicazioni nazionali. Si è trattato piuttosto di iniziative personali di giovani appartenenti alla generazione della disillusione. Sono orfani di strutture ormai vuote come l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) e l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) e del fallimento di tutti i negoziati di pace. Essi vivono soffocati da un sistema di occupazione che ha fagocitato qualunque tipo di rappresentanza sociale e politica che la società palestinese fosse in grado di offrire.
Tra gli episodi di violenza generata nel 2015 si ricorda il destino del piccolo Ahmed Dawabsha, sopravvissuto alla strage di Duma, in Cisgiordania, dove un gruppo di coloni ebrei ha dato fuoco alla casa nella quale viveva insieme alla famiglia. I suoi genitori e il fratellino Ali di 18 mesi rimasero carbonizzati.
Nel mese di ottobre, durante l’Intifada “individuale” hanno perso la vita circa 140 palestinesi e 22 israeliani, mentre oltre 15mila palestinesi sono stati feriti durante la repressione di manifestazioni e nel corso delle perquisizioni. Inoltre, sono state demolite 478 strutture palestinesi, tra cui case, cliniche e scuole. Punizioni collettive che si celano dietro le ufficiali “ragioni di sicurezza” di Israele.
Gli Stati arabi del vicinato nel 2015 sono stati coinvolti e “impegnati” nelle guerre in Siria, Iraq e Yemen.
La scena politica è rimasta quella di opinione pubblica e classe politica israeliana disinteressate dal porre fine all’occupazione o dal sostenere una soluzione dei due Stati o di uno Stato unico, della frammentazione della società palestinese e di un incolmabile vuoto politico che né al Fatah, né Hamas riescono a occupare. Queste le condizioni, e il vuoto, in cui nell’autunno scorso aveva preso il sopravvento l’Intifada di Gerusalemme.