L’imperialismo umanitario: l’utilizzo dei diritti umani per “vendere” la guerra
Jean Bricmont, l’autore di Humanitarian Imperialism: Using Human Rights to Sell War, è un professore di fisica teorica, divenuto politicamente attivo nel 1999, quando la Nato bombardò l’ex Jugoslavia. Bricmont rimase sorpreso per la mancanza di opposizione all’aggressione della Nato, soprattutto da sinistra. Libro potente, scritto durante l’occupazione dell’Iraq, una puntuale critica storica all’interventismo occidentale, che vale la pena di esaminare dal momento che gli Stati Uniti d’America si muovono ancora una volta in direzione di imbroglio militare in Iraq.
Il fisico teorico belga, e professore presso l’Université catholique de Louvain, discute i fattori ideologici che legittimano l’azione militare in risposta alle motivazioni umanitarie e “in difesa della democrazia” (p. 7). Per costruire un’opposizione radicale alle guerre attuali e future è necessario mettere in discussione l’abuso delle motivazioni umanitarie offerte sotto la bandiera che vi sia un “responsabile da proteggere”.
Bricmont introduce una formula che arriverà a definire “imperialismo umanitario”: quando A esercita il potere su B, lo fa per il “bene” di B (p. 11). Questo è il credo del potere filantropico che spaccia e razionalizza la guerra come una colonna per il mantenimento dell’ordine internazionale e che continua a definire la natura del conflitto internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale.
L’ interventismo non è giustificato in nome del cristianesimo, sostiene Bricmont, ma in nome di quelli che chiama rinforzi ideologici: la democrazia e i diritti umani. Ad esempio, nonostante l’uso frequente dell’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, di immagini religiose, la chiamata di invadere l’Iraq non era solo intrisa di refrigerante white saviourism, ma anche di un eccezionalismo travolgente, il quale sostiene che solo gli sforzi militari guidati dagli Stati Uniti d’America possono portare ad una liberazione e ad una stabilità duratura per il popolo iracheno. “I pericoli per il nostro Paese e per il mondo saranno superati. Passeremo attraverso quasto momento di pericolo e porteremo avanti il lavoro di pace”, dichiarò Bush nel 2003: “Noi difenderemo la nostra libertà. Porteremo la libertà agli altri e la faremo prevalere”. Solo il White saviourism agghiacciante unito ad un eccezionalismo travolgente porterebbero ad una liberazione giusta e a stabilità duratura.
Gli orrori inflitti al popolo iracheno sono ancora sottostimati e dal 2003 lo spargimento di sangue non si è fermato, sottolinea uno dei commentatori del libro, Roqayah Chamseddine. Quando Obama ha pronunciato il suo discorso nel 2011 per celebrare il ritiro militare degli Stati Uniti, c’erano bombardamenti e sparatorie a Baghdad, a Mosul, a Kirkuk e in Afer Tal. Mentre il popolo iracheno stava preparando sudari funebri, Obama ribadiva affermazioni della precedente amministrazione, ossia che gli Stati Uniti avevano forgiato per il popolo iracheno un Paese stabile, una pace duratura e reso il mondo più sicuro. Tra fronzoli di congratulazioni e nazionalismo ripugnante, Obama ha segnato un punto saliente, che l’eredità americana in Iraq durerà e che deve essere ricordata. Certo l’eredità di questa guerra tragica e implacabile continuerà a vivere nel ventre delle donne irachene che portano i bambini con malformazioni congenite a seguito dell’uranio impoverito; nei corpi crivellati di coloro che ora soffrono di cancro a causa delle munizioni tossiche utilizzate dai militari degli Stati Uniti e, infine, nella terra dell’Iraq, che è stata divorata e inquinata dalle armi chimiche degli Stati Uniti.
E che dire delle sanzioni contro l’Iraq? Bricmont non trascura di sottolineare l’abile cura senza pietà adottata dagli Stati Uniti per l’attuazione di sanzioni contro l’Iraq, citando su questo “genocidio silenzioso” (p. 24) Marc Bossuyt, ex giudice della Corte costituzionale belga e attuale membro del Permanent Corte di arbitrato dell’Aia: “Le sanzioni contro l’Iraq hanno come scopo evidente l’inflizione intenzionale al popolo iracheno di condizioni di vita (mancanza di cibo adeguato, medicinali, ecc) calcolate per provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale. Non importa che questa distruzione fisica intenzionale abbia come obiettivo apparente la sicurezza della regione. Non solo gli organi sanzionatori sono responsabili, ma non possono essere assolti dall’accusa di avere avuto “l’intento di distruggere il popolo iracheno.”
L’insensibilità delle sanzioni è stata ben illustrata dalle parole dell’allora Segretario di Stato degli Stati Uniti, Madeleine Albright, che interrogata sulla morte di circa 500mila bambini iracheni nel 1996, in un’intervista ha affermato senza problemi: “Penso che questa sia una scelta molto difficile, ma pensiamo che ne sia valsa la pena”.
L’analisi di Bricmont dell’imperialismo umanitario non si limita al Medio Oriente e Nord Africa, ma copre gran parte della sua ampiezza; il colpo di stato in Guatemala nel 1954 è “un’illustrazione esemplare della difesa della democrazia praticata dagli Stati Uniti”, (p.26), che si caratterizza in un atteggiamento paranoico da parte della superpotenza nei confronti di una qualunque minima sfida, nella demonizzazione degli avversari (l’etichetta “terrorista” ha sostituito quella di “comunista”), nel conformismo dei media, che respinge come assurde visioni diverse dalla versione ufficiale del governo, nel totale disprezzo per il diritto internazionale.
Quando poi le argomentazioni per la guerra perdono fiducia o si dimostrano false o sono smentite come la presenza di “armi di distruzioni di massa”, Bricmont ci fornisce l’argomento posto dagli anti-interventisti che chiedono perché gli Stati Uniti non possono poi semplicemente “tirarsi fuori”.
Allora diventa necessaria la “stabilizzazione” per “costruire la democrazia”, ci viene detto anche da parte di molte organizzazioni umanitarie ostili alla guerra. La stabilizzazione ha la priorità e la difesa dei diritti umani comincia a diminuire una volta che l’occupazione militare straniera fluisce e, soprattutto, una volta soddisfatti gli interessi.
Obama è riuscito a ricevere l’immunità per le forze di sicurezza, una “garanzia necessaria” che protegge gli Stati Uniti da procedimenti giudiziari nei tribunali iracheni, negando al popolo iracheno anche l’opportunità di chiedere giustizia. Il comandante in capo Obama avrebbe preferito che fosse l’esercito statunitense al riparo da procedimenti giudiziari ed evitare di affrontare il sistema giudiziario iracheno per crimini contro il popolo iracheno. L’amministrazione Obama aveva promesso “truppe sul terreno” in Iraq ed ora ha inviato 300 “consiglieri militari” e 275 soldati per proteggere l’ambasciata Usa a Baghdad.
Queste truppe, anche se si arriva a centinaia, sono solo una questione irrisoria in confronto alla presenza formidabile del vettore aereo degli Stati Uniti, che hanno fatto la loro strada nel Golfo Persico, e installazioni dell’esercito americano, composte da quattro basi americane attive nel vicino Kuwait. Ulteriore coinvolgimento degli Stati Uniti in Iraq non è una possibilità preoccupante, è l’orribile realtà. Questo è dove, ancora una volta, il “fattore colpa” si insinua nel discorso. Ci viene detto che “dobbiamo sostenere X contro Y” e che l’unico modo per farlo è militarmente e che solo i nostri abiti militari superiori sono in grado di coprire le ferite aperte (che i nostri precedenti interventi militari hanno causato).
Quali bisogni ha l’Iraq adesso? Quelli di sempre: l’unità e la riconciliazione, non un ciclo permanente di guerra, agevolata da corpi estranei. Coloro che fanno la guerra redditizia e che oltraggiano la stessa vita umana non possono tenere conferenze al mondo sulla stabilità e la libertà, né possono attuare “democrazia” attraverso pallottole o attacchi aerei “di precisione”, continua il commentatore Roqayah Chamseddine.
“Se l’intervento militare non è la risposta, allora quale è la risposta? Soluzioni pacifiche come i negoziati e gli sforzi di cooperazione diplomatica, gran parte dei quali gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno volutamente eluso di volta in volta, dovrebbe essere l’obiettivo primario” (p. 66).
Tutti coloro che preferiscono la pace al potere, e la felicità alla gloria, dovrebbero ringraziare i popoli colonizzati per la loro missione civilizzatrice. Liberando se stessi, hanno reso gli europei più modesti, meno razzisti, e più umani. Speriamo che il processo continui e che gli americani siano obbligati a seguire lo stesso corso. Quando la propria causa è ingiusta, la sconfitta può essere liberatoria, termina Bricmont. La lotta contro il neocolonialismo definisce il 21° secolo, ma ciò che costruiamo dopo il caos definisce noi e deve diventare la nostra eredità. E così mentre il tempo avanza e lo spargimento di sangue continua in gran parte del mondo, e gli Stati Uniti hanno nel mirino ancora una volta l’Iraq, poniamoci come obiettivo risoluzioni pacifiche, piuttosto che interventi militari.