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Libia, un Paese abbandonato al suo destino

di Salvo Ardizzone

Doveva accadere ed è accaduto: una settimana fa segnalavamo una recrudescenza degli scontri, che faceva presagire una resa dei conti; ora, in Libia, la situazione è completamente fuori controllo. Non è stato qualcosa d’imprevedibile, tutt’altro: le elezioni farsa, volute da un Occidente incapace di gestire il caos che aveva suscitato, hanno visto la frustrazione di una parte delle milizie. Ciascuna aveva i propri protettori e tutto l’appoggio possibile che venivano da lontano, fino nel Golfo, in un intreccio confuso e inestricabile; chi è stato battuto nella parodia di tornata elettorale, tenta ora di riprendersi con la forza ciò che ha perduto nei seggi.

Come abbiamo già detto, le posizioni vanno definendosi: da un canto gli integralisti di Ansar al-Sharia a Bengasi, un pulviscolo di milizie islamiche nel resto del Paese e la forza dei miliziani di Misurata; dall’altro la milizia di Zintan a Tripoli e gli armati che si rifanno al generale Khalifa Heftar nella zona di Bengasi; nel mezzo un’infinità di bande che finiranno per militare nell’uno o nell’altro campo, vendendosi al miglior offerente.
Gli armati di Misurata hanno provato a giocare d’anticipo, tentando di strappare l’aeroporto di Tripoli alla gente di Zintan che lo controllava; in settimane di scontri via via più violenti non ci sono riusciti, ma i combattimenti lo hanno comunque distrutto e messo fuori uso, lasciando Misurata con l’unico scalo internazionale funzionante. A Bengasi, dove hanno le proprie roccaforti, i miliziani islamici di Ansar al-Sharia hanno provato a riprendere in mano il controllo della città, ma gli uomini di Khalifa Heftar hanno ribattuto colpo su colpo, e la battaglia sta infuriando.
I morti s’accumulano e i feriti, a centinaia, saturano gli ospedali in un bagno di sangue che va crescendo.

Ai tempi della guerra civile, nel 2011, le opposte fazioni s’affrontavano con tutte le armi degli arsenali di Gheddafi, ma, come per un tacito accordo, hanno badato a non danneggiare le installazioni petrolifere e del gas; nessuno dei terminali è stato toccato, indenni i pozzi come le condutture. Erano attente a non distruggere l’unica ricchezza del Paese, l’unica speranza in un futuro. Ora la follia ha superato la soglia; vicino Tripoli, nei pressi dell’aeroporto, due enormi depositi di greggio sono in fiamme e l’incendio è completamente fuori controllo e minaccia di distruggere le infrastrutture.
Il segno che la situazione sia irrimediabilmente degenerata, è dato dalla chiusura a catena delle ambasciate occidentali, e dal rimpatrio dei cittadini stranieri; per ora quella italiana rimane aperta ed ha organizzato il rimpatrio di numerosi concittadini che si trovavano laggiù per lavoro, tramite convogli scortati per la Tunisia; inoltre, su richiesta di alcuni altri Paesi, s’è occupata di evacuare anche diversi cittadini stranieri.

L’Eni, che più d’ogni altro ha il polso della situazione e, per l’antica conoscenza del territorio mantiene i contatti con tutte le parti, per ora continua la sua attività, ma ha reso noto che da un momento all’altro si riserva di rimpatriare tutto il personale.
Siamo alla vigilia dell’epilogo d’una follia iniziata tre anni fa da chi, Francia e Inghilterra in testa, volevano mettere le mani sul tesoro che c’è sotto quelle sabbie, estromettendo l’Eni. Un’avventura scellerata, gestita come peggio non si poteva; ora, a danno fatto, tutti si defilano abbandonando a se stesso quel Paese sventurato, trincerandosi dietro gli stucchevoli quanto inconcludenti minuetti a cui ci ha abituati la diplomazia internazionale.

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