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Gli sciacalli del Kurdistan rimasti con un pugno di mosche

di Salvo Ardizzone

Il petrolio curdo, nei programmi del Kurdistan Regional Government (Krg) e di alcune potenze regionali (leggi Turchia in primis e Israele) e di altre più lontane, doveva rappresentare un colossale affare alle spalle del Governo centrale di Baghdad. Diverse compagnie, quali l’anglo-turca Genel Energy, l’inglese Gulf Keystone e la norvegese Dno, avevano stilato accordi segreti col Krg, destinati ad aggirare la legge petrolifera del 2007 (che imponeva la condivisione della produzione) per spartirsi una torta che i curdi stimavano in almeno 1 milione di barili/giorno. Poco dopo, nel 2013, alcune Major come la ExxonMobile e la Total s’erano aggiunte alle altre, attratte da condizioni economiche giudicate più vantaggiose di quelle del Governo centrale, in barba alla sovranità dell’Iraq e alla legge che nessuno si preoccupava di rispettare.

Il meccanismo ideato era semplice: petrolio e gas sarebbero stati portati attraverso la Turchia fino ai porti di Mersin e Dortyol per essere imbarcati per Israele, dove sarebbero stati venduti tramite operatori come Mocoh, Petraco e Trafigua.

Dinanzi a questo contrabbando alla luce del sole, la reazione di Baghdad è stata la sospensione del contributo al fabbisogno di bilancio del Krg (una cifra di circa 20 Mld di $ all’anno), e la minaccia di sanzioni alle compagnie che si sarebbero prestate al traffico. Ma il Governo di Baghdad era tutt’altro che credibile (c’era Al-Maliki) e, con la prospettiva dei colossali guadagni futuri, petrolieri e curdi hanno tranquillamente continuato nei loro maneggi.

O per lo meno, tranquillamente no, perché fin dall’inizio c’era il problema (grosso) del trasporto fino alla costa turca, che poteva avvenire solo con autobotti su strade che in gran parte è un eufemismo chiamare tali. S’era però pensato di risolverlo grazie a un oleodotto da 300mila barili/giorno, che dai campi estrattivi giungesse al terminale di Ceyan; per quanto riguardava le proteste del Governo iracheno (mai ritenute troppo credibili), la spallata dell’Isis dell’estate scorsa aveva fatto pensare ad una soluzione radicale del problema. Per curdi, petrolieri, Turchia e Israele, il tracollo dell’Iraq li avrebbe lasciati a trafficare dietro la protezione dei tanto celebrati peshmerga.

Pensavano, ma le cose sono andate in modo assai diverso. Dei quattro carichi esportati attraverso la Turchia, solo uno è giunto l’estate scorsa ad Ashkelon, per essere venduto ad un acquirente rimasto sconosciuto; malgrado la convenienza, i grandi compratori internazionali hanno diffidato di un’operazione troppo complessa e con troppi voraci attori coinvolti, che li avrebbe messi a rischio delle sanzioni di Baghdad, pur sempre un grosso esportatore malgrado tutti i guai che attraversava.

Inoltre l’andamento delle altre esportazioni, pur sempre di centinaia di migliaia di barili/giorno, con i ricavati spesso bloccati nelle banche turche per i contenziosi fra Ankara e Baghdad, erano tutt’altro che sufficienti a permettere ad Erbil di pagare alle compagnie petrolifere quanto previsto nei contratti. Né il ritrovato accordo con il Governo centrale sul contributo al bilancio ha dato sollievo, perché, fra prezzi del petrolio in picchiata e le spese della guerra in corso, ai curdi è stato trasferito solo un acconto di 500 ml, un’inezia a fronte dei circa 8 Mld di debiti maturati dal Krg nei confronti dei petrolieri.

E non è tutto: una serie di complicazioni geologiche impreviste e costose, hanno fatto schizzare al cielo i costi d’estrazione, bloccando molti dei progetti in corso. Inoltre, i peshmerga, alla prova dei fatti, hanno mostrato tutta la loro inefficienza e son dovute intervenire le milizie sciite a salvare i campi dalle bande del “califfo”, cosa che ha ulteriormente innervosito le compagnie che hanno visto quanto precari fossero i loro colossali investimenti.

Per rientrare almeno in parte dalle esposizioni (non ricevono nulla dal novembre scorso), i petrolieri hanno provato a vendere greggio sul mercato locale, ma con pessimi risultati visto che, non solo è completamente saturo, ma spunta 20 $ in meno su un barile che è ovunque ai minimi da anni.

Con il gas, la situazione è anche peggiore, con il Krg ormai in lite aperta con le società degli Emirati, le più importanti investitrici nell’area: c’è un arbitrato a Londra che minaccia una penale da 5 miliardi! In questo contesto, già la Dno ha notificato la cessazione delle attività mentre la Genel Energy ha drasticamente ridotto gli investimenti e le altre stanno seguendo a ruota.

In questa sporca faccenda, Erbil aveva contato di lucrare spudoratamente sulla difficile situazione dell’Iraq, lo Stato a cui, piaccia o no, appartiene, e a cui ha poi chiesto aiuto quando l’Isis ha travolto i suoi peshmerga come birilli; Turchia e Israele pensavano di speculare fungendo da ricettatori del petrolio curdo; le compagnie avevano fiutato l’affare col proverbiale cinismo.

Per una volta lo svolgersi degli eventi ha impedito il realizzarsi dei piani, ritorcendoli su curdi e petrolieri e lasciando Stati, che hanno agito come sciacalli, con un pugno di mosche.

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