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Ucraina, chi la “salverà” dalla catastrofe?

In Ucraina l’unica certezza è che nulla è certo e tanto meno chiaro. A due settimane dall’epilogo improvviso della rivolta di piazza Maidan, le conseguenze son tutte da sperimentare e da capire. Per la diplomazia internazionale, è come se, volendo dare uno scrollone per spalancare una porta, con quella sia caduto anche il muro e la casa non si sa ancora che fine possa fare. La ragione di questa immensa confusione è che nessuno prevedeva la piega repentina che dopo quella notte fra il 21 e il 22 febbraio hanno preso gli eventi: vediamo di ricapitolare.

La situazione era pesantissima dopo i morti della giornata del 20 febbraio e quelli prima; uccisi nella gran parte da cecchini misteriosi che, secondo quanto sta emergendo, e ripreso da una telefonata del 26 febbraio della responsabile per la politica estera della Ue Ashton al Ministro degli Esteri lettone Paet intercettata dai russi e messa su You Tube, spararono con le stesse armi su poliziotti e dimostranti. E Olga Bogomolets, personaggio assai noto, dichiara che dietro i cecchini non ci fosse Yanukovich, ma altri del governo che volevano forzargli la mano. Yanukovich da parte sua aveva gestito la crisi nel modo peggiore, alienandosi entrambi gli schieramenti (ed anche Putin, che ora in Russia praticamente lo ignora, furioso per il disastro combinato); l’opposizione aveva comunque il fiato corto, dopo quelle giornate micidiali, e, pur gonfiando il petto, pensava che a breve sarebbe stata schiacciata.

Il 21 a Kiev si presenta una troika europea, con i rappresentanti di Germania, Francia e Polonia; Yanukovich rifiuta di riceverli. I telefoni si fanno roventi fra la Merkel, Putin e Obama, ed alla fine è chiaro che un accordo viene trovato perché l’incontro si fa, presenti le opposizioni con il pugile Klitschko, Yatseniuk (uomo della Tymoshenko) e altri ancora più improvvisati soggetti, e soprattutto l’emissario del Kremlino.

La riunione finisce nella notte, con un accordo in sei punti che prevede nuove elezioni parlamentari a breve, quelle presidenziali entro l’anno, un nuovo governo d’unità nazionale con tutte le parti dentro e il ripristino della vecchia costituzione; ma già doveva esserci qualcosa di stonato se il rappresentante di Putin non lo sottoscrive.

L’indomani, all’annuncio ufficiale, quel faticoso equilibrio va in frantumi: il gruppo di potere di Yanukovich si squaglia letteralmente nello spazio d’un giorno, l’accordo va in brandelli e il Presidente, in fuga, viene immediatamente destituito da un parlamento letteralmente invasato; è successo che sotto le spinte più irrazionali, la situazione è completamente scappata di mano a chi credeva di governarla.

Le cancellerie di tutto il mondo restano di stucco e per primi i garanti dell’accordo: l’Europa non sa che pesci prendere e a lungo balbetta frasi di circostanza; gli Usa si rendono conto dell’enormità e Putin, che si sente giocato, schiuma di rabbia. Ancora i telefoni si fanno roventi, ma Putin rassicura una Merkel preoccupata dicendole che l’integrità territoriale dell’Ucraina non è in discussione; ancora si sta a vedere dove si va a parare, nella speranza che i freschi accordi tengano.

Nel frattempo, nella più assoluta confusione, a Kiev si fa un governo provvisorio con dentro le sole opposizioni (e non di unità nazionale come concordato) con figure improbabili, e la stessa Tymoshenko, appena liberata, dice chiaro e tondo che non intende dirigerlo né avervi parte; da vecchia volpe comprende al volo la situazione e si tiene fuori per mantenere il ruolo di icona nazionale per il dopo.

Dinanzi alla confusione crescente, e per mancanza d’interlocutori credibili per ricondurre a un minimo di logica la vicenda, Putin perde la pazienza e gioca le sue carte, prendendosi il piatto per lui più importante della partita: la Crimea.

Dal suo punto di vista motivi ne ha da vendere: è la sede della Flotta Russa, base indispensabile per appoggiare tutti gli enormi interessi che Mosca ha, e intende incrementare, nel Caucaso, nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Inoltre, prendendo la Crimea, manda un ruvido avvertimento a chiunque pensi di poter gestire la cosa alla leggera, e, avendola già in mano, quando sarà il momento, potrà trattare da una posizione di forza. E dinanzi alla confusione dell’Europa, di Kiev e degli Usa, rincara la dose ordinando massicce manovre militari sul confine ucraino.

Gli uomini della flotta russa, e i paracadutisti giunti sugli Ilyushin, usando la risibile accortezza di non mettere le mostrine, occupano le caserme e le basi d’un Esercito Ucraino che si scioglie come un gelato; ma nelle poche occasioni che tiene duro, i soldati russi hanno ordini precisi: evitare d’usare la forza in situazioni critiche, e questo la dice tutta sullo scopo dimostrativo dell’azione. È una colossale quanto rischiosa partita a poker, con il destino di una nazione per posta.

Ma anche gli altri giocatori si svegliano finalmente; le posizioni dell’Amministrazione Usa si delineano: la mossa di Putin va contenuta e il Segretario di Stato Kerry comincia la spola fra le capitali, mentre la Ue promette 11 mld di € di aiuti (che poi sono i 15 mld di $ a suo tempo offerti dalla Russia) tramite il Fmi (ma attenzione! Particolare importante, alle sue rigide condizioni).

A questo punto, in un crescendo di rilanci, Putin gioca una carta pesante: già qualche giorno prima s’era fatto autorizzare dal Consiglio della Federazione ad intervenire in Ucraina per difendere i cittadini russi e i loro interessi; con i tank già ai confini, sembra che si sia al punto di non ritorno.

Ma ecco l’imprevisto che lo fa desistere, facendogli richiamare le truppe nelle caserme: ai rumori di armi la Borsa russa affonda con un –10,8% in un giorno solo e la Gazprom (che è di Putin) perde addirittura il 13%; con lei va a picco il rublo che raggiunge il suo minimo storico, e la banca centrale deve bruciare 10 mld di $ per difenderlo ed aumentare il tasso di sconto al 7% dal 5,5 che era. L’economia russa non se lo può assolutamente permettere, tanto più che nel solo 2013 80 mld di $ sono già fuggiti, e, alle notizie, cifre immense prendono il volo per l’estero.

Così le truppe tornano nelle caserme e i mercati si stabilizzano con un immediato +5% della Borsa di Mosca. Da allora è un braccio di ferro continuo che non si sa dove porterà; occorrerebbe prendere tempo per trovare soluzioni, ma gli Ucraini filo-russi ora sembrano pervasi dalla stessa frenesia che settimane fa avevano gli altri a Kiev (per inciso: il referendum per l’annessione della Crimea alla Russia, fissato per il 16 marzo, è un’altra grana colossale fatta apposta per complicar le cose).

E le cose son già terribilmente complicate; come abbiamo più volte detto in altre occasioni, l’Ucraina è nelle peste: il suo sistema produttivo è quanto di più inefficiente si possa immaginare e divora quantità di gas spropositate, vendute dallo Stato a prezzo politico, assai più basso di quello già scontato di Gazprom; lo stesso vale per i riscaldamenti delle abitazioni. Al momento, Gazprom fornisce gas a 268 $ per 1.000 m.c. invece che a 400, se dovesse – come ha già dichiarato – chiedere il prezzo pieno e il saldo degli immensi debiti pregressi, l’Ucraina, che in tutto ha in cassa 15 mld di $ di riserve, potrebbe chiudere battenti. Allo stesso modo, le “riforme” chieste del Fmi per concedere il prestito, sono in sostanza le stesse di quelle chieste alla Grecia, e v’immaginate i filo-russi dell’Est (e anche quelli dell’Ovest disillusi) sottoposti a quella cura?!

Gli Usa, non hanno molte armi in mano: quella delle sanzioni è spuntata per loro, solo 40 mld di $ di scambi pesano poco (mentre è impensabile per la Ue con circa 460 mld!); non ne hanno molte altre se non politiche (e sarebbe anche ora che imparassero ad usare quelle invece che altre!).

Ma anche la Russia ne ha assai meno di quanto sembri: la soluzione militare porterebbe un enorme sconquasso ad un’economia in fase di chiara stagnazione; inoltre, in questo momento, provare a sospendere o ridurre l’erogazione di gas farebbe più danni a lei (che ne ha assoluto bisogno per la valuta che incassa) che ai Paesi Europei i quali, grazie al clima mite di quest’inverno e ai consumi ridotti per una crisi che persiste, hanno scorte enormi.

La situazione è in continua evoluzione e nessuno può immaginare come finirà; la speranza è che si guadagni tempo senza che accada nulla di irreparabile prima che, in un modo o nell’altro, si trovi una soluzione che non scontenti troppo tutti (soprattutto la Russia). Ma state certi che, comunque vada, quello che finirà per stare peggio (e molto) sarà il popolo Ucraino, unito (ma come, dopo questo marasma?) o diviso in due, sotto due padroni diversi invece che uno.

di Salvo Ardizzone

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