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Libano: la battaglia per i campi palestinesi

In Libano è in corso una campagna silenziosa ma strategica per disarmare i campi profughi palestinesi, a lungo considerati zone autonome con proprie gerarchie politiche e militari. Questo sforzo non riguarda solo la sicurezza interna libanese. Secondo fonti libanesi, questo tentativo sarebbe un “pallone di prova” per neutralizzare l‘arsenale di Hezbollah.

Facendo dei campi il primo teatro del disarmo, gli attori occidentali cercano un’opportunità a basso costo e a basso rischio per testare le reazioni locali. Se il governo libanese riuscisse a privare questi campi delle armi senza innescare una resistenza violenta, potrebbe creare un precedente per uno scontro più ampio con Hezbollah.

Al contrario, un fallimento metterebbe a nudo i limiti del controllo statale e sposterebbe altrove le ricadute politiche. Agli occhi di molti osservatori, questa non è solo una questione libanese, ma profondamente legata alle dinamiche di potere regionali e al più ampio programma di neutralizzazione della Resistenza agli interessi israeliani e statunitensi nella regione.

Fonti dell’intelligence dell’esercito libanese riferiscono che, nonostante le pressioni di Washington, non esiste ancora una strategia americana coerente per i campi palestinesi. La priorità immediata degli Stati Uniti rimane Hezbollah, mentre Israele continua a gestire le operazioni sul campo. Tuttavia, la militarizzazione della questione del disarmo dei campi è già iniziata, in particolare nei media e nei corridoi diplomatici libanesi.

Fonti palestinesi sottolineano anche l’incoraggiamento da parte degli Stati Uniti a una “fase pilota” per il disarmo in campi selezionati – probabilmente testata prima ad Ain al-Hilweh e Burj al-Shamali – per valutare la resistenza e la risposta.

L’alleanza silenziosa di Ramallah con Beirut

Una visita poco pubblicizzata di Majid Faraj, capo dell’intelligence dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), il mese scorso a Beirut ha rivelato la disponibilità di Ramallah a contribuire al disarmo dei campi. Faraj ha incontrato a porte chiuse il presidente libanese Joseph Aoun e alti funzionari dell’intelligence. Secondo quanto riferito, i colloqui si sono concentrati sull’offerta dell’ANP di supervisionare il processo di disarmo e di assumersi la responsabilità della sicurezza all’interno dei campi.

Faraj ha anche fatto pressioni per cambiamenti radicali all’interno dell’ambasciata palestinese a Beirut, sostenendo la rimozione dell’ambasciatore Ashraf Dabour. Sebbene i funzionari libanesi si siano rifiutati di agire immediatamente, citando la delicatezza del momento, il programma di Faraj riflette un tentativo dell’Autorità Nazionale Palestinese di aumentare la propria influenza in Libano emarginando le fazioni rivali, in particolare Hamas.

Inoltre, Faraj ha offerto una più profonda cooperazione di intelligence tra l’Autorità Nazionale Palestinese e le agenzie libanesi, in particolare su ciò che Ramallah ha definito “antiterrorismo”. La parte libanese avrebbe espresso riserve, dato che Hezbollah e altre fazioni consideravano ostile la classificazione dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Inoltre, l’Autorità Nazionale Palestinese avrebbe raccolto con discrezione informazioni sulle reti di Hamas e del Jihad Islamico palestinese all’interno del Libano.

Le fazioni della Resistenza palestinese in Libano affermano che Hezbollah ha comunicato che la Risoluzione ONU 1701 – originariamente rivolta a Hezbollah dopo la guerra del 2006 – dovrebbe applicarsi anche alle fazioni palestinesi che operano nel Libano meridionale. Questo allineamento indica una spinta concertata a universalizzare il quadro del disarmo sotto copertura internazionale.

Hezbollah, Hamas e il calcolo del campo

I recenti arresti di agenti legati ad Hamas da parte dell’intelligence dell’esercito libanese, a seguito del lancio di razzi dal Libano meridionale verso il nord di Israele, rivelano l’alta posta in gioco. Fonti palestinesi confermano che diverse figure di Hamas sono state arrestate, con lo Stato libanese e la Resistenza che hanno scelto di minimizzare gli eventi per evitare l’attenzione dell’opinione pubblica.

Fonti palestinesi rivelano che questi arresti hanno preso di mira diversi comandanti militari di Hamas, nell’ambito di un’indagine sui recenti lanci di razzi verso la Palestina occupata. L’intelligence dell’esercito libanese avrebbe agito in coordinamento con obiettivi di sicurezza più ampi, sebbene la questione sia stata tenuta segreta per evitare che si trasformasse in una controversia pubblica.

Libano e Resistenza

La decisione di mantenere segreti gli arresti è stata influenzata da sviluppi simili in Giordania, dove alcuni detenuti sono stati trattenuti per presunti piani di lancio di razzi, con l’ipotesi che avessero ricevuto addestramento tecnico e di sicurezza in Libano. I gruppi della Resistenza temono che gli arrestati possano essere assassinati se rilasciati senza garanzie, il che rende la gestione interna della questione ancora più urgente da parte delle fazioni.

Gli arresti sarebbero legati alla preparazione di operazioni future, che includevano campi di addestramento e attività di coordinamento. Mentre Ramallah etichetta tali attività come “terrorismo”, Hezbollah e altri la considerano una legittima resistenza, sottolineando le divergenti strategie palestinesi e la tensione che circonda la spinta al disarmo.

A complicare ulteriormente la situazione ci sono le segnalazioni di basi di addestramento segrete collegate ad Hamas e ad altre fazioni nella valle della Beka’a e nei distretti meridionali del Libano, dove il coordinamento con Hezbollah si sarebbe intensificato da quando la guerra di Gaza ha riacceso il sentimento di Resistenza regionale. Queste dinamiche sono viste dai funzionari statunitensi come una potenziale “catena di deleghe” che lega l’influenza iraniana da Gaza al Libano.

L’equilibrio di Salam e gli incentivi degli Stati Uniti

L’inizio del mandato del Primo Ministro Nawaf Salam è stato caratterizzato da una campagna attentamente orchestrata contro i campi profughi palestinesi. Salam ha rilanciato il Comitato per il dialogo libanese-palestinese, un organismo che ha il compito di coordinare le questioni relative ai rifugiati.

Inizialmente, il compito di guidarlo fu affidato al dottor Bassel al-Hassan, che promosse una visione che comprendeva il ritiro graduale delle armi, la revoca dell’autonomia dei campi e la completa integrazione nella vita civile libanese.

Tuttavia, Salam lo ha improvvisamente sostituito con Ramez Dimashkieh , un ex ambasciatore con stretti legami con reti filoamericane. La mossa ha scatenato una forte reazione tra le fazioni palestinesi, soprattutto perché il titolo della posizione è stato modificato in “capo del gruppo di lavoro libanese incaricato di affrontare le questioni dei rifugiati palestinesi”, omettendo qualsiasi riferimento al dialogo, il che suggerisce un approccio libanese unilaterale.

Reinsediare in modo permanente i rifugiati palestinesi in Libano

Nel frattempo, i funzionari statunitensi hanno tenuto incontri segreti con i rappresentanti libanesi per valutare la possibilità di reinsediare in modo permanente i rifugiati palestinesi in Libano, una questione storicamente politicamente importante per lo Stato, dato che cambierebbe il delicato equilibrio settario del Libano e potenzialmente priverebbe i rifugiati palestinesi del loro “diritto al ritorno”.

Secondo quanto riferito, sono stati offerti incentivi economici dai due ai cinque miliardi di dollari per finanziare unità abitative, infrastrutture e formazione professionale per i palestinesi, in cambio dello status legale e del disarmo. I colloqui sono stati coordinati tramite intermediari, con Hassan che ha svolto il ruolo di uomo di punta prima del suo licenziamento.

Secondo fonti vicine ai negoziati, Washington auspica l’istituzione di un comitato di sicurezza congiunto libanese-palestinese per i campi profughi e ha incoraggiato Salam a lanciare una campagna mediatica che evidenzi i “benefici sociali ed economici” dell’integrazione. Tuttavia, Salam si scontra con una crescente resistenza politica, anche all’interno del suo stesso governo.

Trappole legali e identitarie: carte biometriche e permessi di lavoro

Il governo sta valutando una serie di misure controverse volte a regolamentare – e potenzialmente riconfigurare – l’identità palestinese in Libano. Tra le più controverse c’è la proposta di carte d’identità magnetiche biometriche che garantirebbero ai palestinesi il diritto di lavorare senza autorizzazione preventiva. I critici avvertono che questo potrebbe trasformarsi in un cavallo di Troia per il reinsediamento, privando di fatto i rifugiati del loro status politico.

Le fazioni palestinesi temono che queste carte possano omettere la menzione della nazionalità originaria dei titolari, un passo che potrebbe cancellare simbolicamente e legalmente il loro diritto al ritorno. Si fa riferimento ai recenti cambiamenti in Siria, dove ai rifugiati palestinesi sarebbero stati rilasciati passaporti identici a quelli dei cittadini siriani, con lo status di “rifugiato” silenziosamente revocato.

Il Comitato per il Dialogo sta anche esaminando la legge del 2001 che vieta ai palestinesi la proprietà di immobili. È stata avanzata una proposta che permetterebbe ai palestinesi di possedere una sola residenza, senza il diritto di scambiarla o affittarla. Sebbene venga pubblicizzata come un gesto basato sui diritti, molte fazioni la considerano un modo per costruire la stabilità sociale in cambio di concessioni politiche e militari.

Salam ha anche incaricato i ministeri di valutare l’estensione dell’accesso dei palestinesi alle scuole pubbliche e a settori lavorativi a basso rischio come l’agricoltura e l’edilizia. Tuttavia, questi piani incontrano l’opposizione di sindacati e fazioni politiche, in particolare tra i cristiani, che temono i cambiamenti demografici. Il comitato ha proposto un sistema di permessi di lavoro temporanei per valutarne l’impatto.

La dottrina della sicurezza al primo posto per Aoun

Mentre il Primo Ministro Salam parla di equilibrio, il Presidente Joseph Aoun ha assunto una posizione più intransigente. Ex capo dell’esercito e ora capo di Stato, Aoun ritiene che il disarmo debba precedere qualsiasi discussione sui diritti. I suoi precedenti sforzi per il controllo delle armi ad Ain al-Hilweh e Nahr al-Bared hanno incontrato resistenza, ma continua a sostenere il monopolio statale sulla violenza.

Durante la sua guida come comandante delle Forze Armate Libanesi, Aoun ha preso parte a iniziative congiunte con UNIFIL e le fazioni palestinesi, come il progetto “Community Police”, volto a gestire la sicurezza interna dei campi. Il progetto, parzialmente finanziato dagli Stati Uniti, è stato accantonato a causa del timore che la nuova amministrazione Trump preferisse opzioni più aggressive.

Le recenti attività nei pressi dei campi indicano una rinnovata urgenza. Testimoni oculari segnalano un aumento di militari libanesi ai posti di blocco, in particolare intorno ai campi di Nahr al-Bared e Ain al-Hilweh. Fonti affermano che un documento del Ministero della Difesa libanese raccomanda perquisizioni domiciliari alla ricerca di armi illegali. Altre misure includono controlli più rigorosi ai punti di ingresso e una maggiore sorveglianza.

Secondo quanto riferito, l’esercito ha formato un comitato per coordinarsi con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina su un piano di disarmo graduale della durata di un anno, subordinato al sostegno internazionale. Si segnalano anche pattugliamenti congiunti esercito-UNIFIL a sud del fiume Litani, nelle aree vicine ai campi di Rashidieh e Burj al-Shamali.

Pressione regionale, frammentazione locale

Si dice che anche l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti stiano esercitando una pressione discreta sul governo libanese affinché tenga sotto controllo i campi. Il loro obiettivo, secondo fonti politiche, è limitare l’influenza di Hamas e isolare Hezbollah per procura. In cambio, entrambi i Paesi hanno accennato a un potenziale sostegno economico al Libano.

Ma la questione è tutt’altro che risolta. Anche all’interno del Comitato per il Dialogo permangono profonde divisioni. A quanto pare, Bassel al-Hasan preferiva collaborare con Fatah, emarginando le fazioni legate ad Hamas. Si prevede che il suo sostituto segua l’esempio di Washington, ma il direttore del Comitato, Abdel Nasser al-Ayi, è considerato più vicino alla causa palestinese.

Ayi ha proposto un piano che prevede il trasferimento della sicurezza del campo all’esercito libanese, offrendo al contempo garanzie di processi equi e sostegno alle famiglie dei detenuti. Sostiene inoltre un percorso legislativo – attraverso il Parlamento o un decreto governativo – per garantire ai palestinesi diritti limitati. Tuttavia, il background legale di Salam suggerisce una certa riluttanza a eludere le procedure legislative.

Ayi ha anche sostenuto definizioni legali più chiare dello status di rifugiato e dei relativi diritti, e ritiene che lavoro e armi debbano essere trattati come questioni separate. Propone di consentire ai palestinesi di possedere un piccolo appartamento e di ereditarlo, rifiutando qualsiasi baratto di armi in cambio di diritti civili.

Un’equazione precaria

Il 5 marzo, una delegazione guidata da Azzam al-Ahmad , alto funzionario di Fatah, ha incontrato il Primo Ministro Salam per presentare una proposta di legge completa sui rifugiati. La proposta consoliderebbe i diritti in un quadro unificato, respingerebbe il reinsediamento e garantirebbe l’accesso al lavoro, all’assistenza sanitaria e alla proprietà. La bozza è ancora bloccata presso il Ministero della Giustizia libanese in attesa di un consenso politico.

L’ufficio di Salam ha avviato colloqui con l’UNRWA per “condividere l’onere” dei servizi educativi e sanitari, ma i palestinesi temono che questo sia l’inizio dello smantellamento del ruolo dell’agenzia e della ridefinizione dei rifugiati come residenti permanenti. I colloqui con i donatori europei e arabi hanno incluso proposte per deviare i finanziamenti attraverso i ministeri libanesi, suscitando aspre critiche da parte dei difensori dei diritti dei rifugiati.

I campi palestinesi in Libano sono da tempo un ricordo fisico e simbolico della lotta palestinese incompiuta. Oggi, però, sono coinvolti in una pericolosa convergenza di interessi regionali, politiche settarie e disperazione economica.

Libano e la polveriera dei campi profughi

Mentre attori stranieri e locali promuovono visioni sovrapposte e a volte contraddittorie – il reinsediamento per gli aiuti, il disarmo per la stabilità, l’integrazione per il contenimento – i campi rischiano di trasformarsi in arene di scontro o cooptazione. Se la leadership libanese riuscirà a destreggiarsi in questa equazione ad alto rischio senza sacrificare la sovranità – o l’identità palestinese – rimane una questione aperta.

Ma ciò che è chiaro è questo: il destino dei campi profughi palestinesi non è più una questione interna. È una cartina tornasole regionale, il cui esito potrebbe prefigurare il futuro della Resistenza, del ritorno e dell’autonomia regionale in tutta l’Asia occidentale.

di Redazione

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