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La “stupidità” dell’operaio giova al capitalismo

Non è una supposizione. Che la stupidità sia uno dei fattori favoriti dalle grandi aziende per i propri operai è un dato di fatto. Il capitalismo si nutre proprio della “stupidità” dell’operaio. Lo dicono in particolare due economisti, ma possiamo arrivarci anche col nostro spirito di osservazione. Quando i dipendenti si mostrano servili verso i loro datori di lavoro e non muovono critiche o disappunti allora l’azienda aumenta notevolmente la sua produttività. La chiamano “stupidità funzionale” solamente perché funziona al sistema produttivo, al commercio, al business, insomma a quel capitalismo che fa dei sentimenti umani dei  conti correnti virtuali e che indirizza le nostre vite in semplici quanto articolate logiche di mercato.

Sono Andrè Spiecer della Cass Business School della City University London e Mats Alvesson dell’Università di Lund, in Svezia, gli economisti che per primi hanno parlato del fattore “stupidità” nelle aziende basata “sull’assenza di riflessione critica. Uno stato di unità, che fa sì che gli impiegati non mettano in discussione decisioni e strutture”. Come tanti robot comandati e messi lì per fare esclusivamente il proprio dovere ed ubbidire al grande padrone pronto a staccare la spina da un momento all’altro. In un mondo dove la produttività comanda sulla qualità e dove è il denaro a regolare la vita dell’uomo e non viceversa, troppe teste pensanti creano indubbiamente fastidio e, secondo il sistema capitalistico, fanno letteralmente “perdere tempo”.

Il capitalismo si nutre della stupidità

Quando regna invece la stupidità, sostengono i due economisti, “si vive in un clima che riduce i conflitti e dà sicurezza”: ma come percepire tali sentimenti se lo stesso operaio è obbligato ad una palese soppressione delle proprie capacità cognitive? “Non devi pensare, fallo e basta!”. La stupidità di cui parliamo non è un punto del contratto lavorativo ma uno status che si coltiva giornalmente, ogni qual volta mettiamo una pietra sopra un pezzo della nostra dignità. Lo scopo del sistema è quello di creare le condizioni affinché si concentri l’operaio su “aspetti positivi” in modo tale da offrirgli una “visione ottimistica e coerente del proprio lavoro”.

Marx la chiamava “alienazione dell’operaio”, ovvero quel processo che estranea un essere umano da ciò che fa fino al punto da “estraniarsi da sé stesso”. Questo diviene un oggetto sfruttato dal suo datore di lavoro (che dal suo lavoro poi trae il Plus–valore) per incrementare il profitto. Attualissimo invece il discorso secondo cui non è più la merce ad essere prodotta per essere venduta e produrne altra, ma è il denaro ad essere investito nella merce per produrre altro denaro. Dunque è nella merce stessa che potrebbero venire a mancare quelle garanzie di qualità del prodotto minacciato da quello più competitivo e meno costoso.

Una società che sforna giovani tutti uguali ideologicamente e psicologicamente

Insomma, un sistema del genere ovvero quello in cui viviamo ma di cui non sempre ci accorgiamo, si rapporta alla società con l’intento di sfornare giovani tutti uguali ideologicamente e psicologicamente. Dalla più tenera età al progressivo attaccamento a quei social network che hanno quasi del tutto sostituito i “giochi di strada” in cui si sbucciavano le ginocchia ma si sviluppava l’ingegno. I giovani diventano il mezzo con cui incrementare i profitti delle grandi multinazionali che controllano le stesse politiche mondiali.

Non dovremmo stupirci forse se un giorno ci ritroveremo il marchio della Coca Cola o del McDonald’s nelle tessere elettorali. Dunque, o i giovani si ribellano rifiutando ogni tipo di compromesso per proporre nuove realtà, oppure l’intera dignità umana si estinguerà in nome dell’eterno profitto economico.

di Redazione

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