Primo Piano

Le Tigri dal ruggito incerto

di Salvo Ardizzone

È il dilemma di sempre. Le Tigri che nello scorso decennio hanno messo a segno una crescita incredibile (parliamo di Brasile, India, Sud Africa, Indonesia e Turchia), alla fine dell’anno scorso hanno cominciato a vacillare; dopo una corsa travolgente, sono state chiamate a dare risposte serie alle classi medie emerse dalla crescita, alle masse lasciate ancora indietro e al Mondo; insomma, a divenire nazioni solide ed evolute. E sono risposte che, senza idee chiare e polso forte, è difficile dare, perché si tratta di trovare la sintesi fra esigenze opposte.

Il Mondo, quello dei capitali fluiti lì in cerca della massima remunerazione, sognerebbe costi bassi, controlli labili e nessun problema sociale, che a queste condizioni può essere ottenuto solo a prezzo di una ferrea repressione. Le classi medie chiedono il riconoscimento del loro ruolo e una fetta di quel potere su cui lucra alla grande chi già ce l’ha, e che ovviamente non lo vuole mollare. Le masse, che hanno visto solo le briciole di quel benessere, e che continuano a pagarne il prezzo con disoccupazione, disagi sociali, salari inadeguati e servizi più o meno scadenti, vorrebbero migliorate le proprie condizioni. Se a questo unite l’esigenza di tagliare le unghie ad amministrazioni parassite (ma su cui comunque il potere si basa), che vedono crescere la ricchezza dei Paesi e ne pretendono una fetta tramite una disinvolta corruzione generalizzata, che fa indignare tutti e che ostacola ogni cosa, avrete il quadro delle difficoltà di trovare le soluzioni, che spesso, troppo spesso, sono in contrasto.

Intendiamoci, ognuno di questi Paesi ha una mescolanza a sé di questi fattori, ma ognuno, indistintamente, è attraversato da fortissime tensioni (alcune sfociate in pesanti disordini di massa vedi Brasile e Turchia), ed è chiamato a superare il passo, pena la recessione e il ritorno a troppi anni prima. Ognuno di loro è interessato, lo è stato o lo sarà a breve, da tornate elettorali che, vista la situazione, dovrebbero avere importanza esiziale, ma, anche se cambiamenti ci saranno, difficilmente produrranno le conseguenze necessarie.

Per dirla in breve, il Sud Africa ha già votato e, malgrado disoccupazione, corruzione, servizi inesistenti e rabbia contro una classe politica che si occupa solo d’ingrassare sul Paese, l’Anc ha vinto ancora pur perdendo voti; l’unica opposizione seria, la Democratic Alliance, ha ancora molta strada da percorrere prima d’essere un’alternativa, e sullo sfondo, se la tensione cresce, c’è l’Economics Freedom Fighters, che s’ispira a Mugabe, a minacciare di mandare il Paese in malora.

Anche in India le lunghe elezioni si sono concluse; il Partito del Congresso, dopo troppi anni di corruzione e inefficienza, ha avuto una sconfitta epocale, passando la mano al Partito Popolare Indù di Narendra Modi, che un po’ col nazionalismo, un po’ coi sogni, ha conquistato le folle per aprire le porte al mondo degli affari. Difficile che chi è stato lasciato fuori dal benessere e la classe media possano trovare ciò che cercano, e ancor di più che l’India conosca uno sviluppo vero, ma che sia per tutti.

In Indonesia si voterà a luglio, ed è scontato che vincerà Joko Vidolo del Partito Indonesiano di Lotta, l’attuale Governatore di Giacarta; è assai popolare e vorrebbe riforme radicali, ma l’ex Presidente, signora Sukarnoputri, continuerà a controllare  Partito e voti in Parlamento, e non gli lascerà mano libera nel demolire il suo apparato di potere, tanto più che è intenzionata a lanciare i figli al vertice dello Stato. È assai probabile che farà di tutto (e può tantissimo) per fare fallire il concorrente e lasciare le cose come stanno.

Anche in Brasile si voterà presto; Dilma Rousseff è in difficoltà: l’economia ha avuto un rallentamento, e da tempo ci sono proteste violente per i servizi scadenti e le cifre folli spese per i mondiali di calcio, sottratte anche a servizi essenziali. La Rousseff contava sui mondiali e dopo sulle Olimpiadi del 2016 per puntellare un consenso in calo, ma ha ottenuto il contrario: quello che doveva essere un trionfo si sta dimostrando un fallimento. Tuttavia, alle prossime elezioni probabilmente vincerà egualmente perché ha il sostegno del popolarissimo Lula, ma dovrà mettere mano a riforme vere, pena il pericolo di venir travolta.

Resta la Turchia: l’Akp, il partito al Governo, ha avuto un buon risultato alle amministrative di marzo, malgrado le fortissime tensioni suscitate da Erdogan, il suo capo; ora, l’annunciato ritiro di Gul, l’attuale Presidente, gli spiana la strada per le elezioni di agosto. Ma anche se è probabile che ce la possa fare, l’autoritarismo sfacciato, gli scandali, le leggi liberticide e i pesantissimi disordini di piazza che ne derivano (gli ultimi quelli seguiti al colpevole disastro minerario di Soma), son fatti per far fuggire capitali e danneggiare un’economia che è al momento vulnerabile.

Il quadro generale è tutt’altro che felice, ed è più che mai difficile che, con simili premesse, questi Paesi sappiano trovare il giusto equilibrio; la via d’uno sviluppo complessivo che si occupi di tutti,  non può essere quella dettata puramente dal “dio mercato” (che troppi danni ha fatto, come abbiamo visto troppe volte), e neppure quella del paternalismo che dà le briciole alla gente, mentre le cricche di potere ingrassano fra traffici e mazzette (anche questo visto tante volte).

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