Le lacrime del coccodrillo saudita
Da molti anni i sauditi spendono somme immense e pagano schiere di miliziani per destabilizzare Stati in giro per il mondo, in nome di una folle jihad wahhabita che nasconde (e neanche tanto) ben altri scopi assai più prosaici: mantenere il potere traballante di una cricca di privilegiati. Ora, all’improvviso, è arrivato un secco contrordine ufficiale a quanto fatto sino a ieri.
Per provare a comprendere qualcosa (ma solo provare, è il futuro che ci dirà cosa si nasconde dietro i fatti di cui parliamo), dobbiamo fare un passo indietro.
Il Consiglio di Cooperazione del Golfo è stato una specie di superclub di ricchissimi Stati da mille e una notte, docile strumento nelle mani dell’Arabia Saudita che lo utilizzava a suo piacimento, ma da tempo, uno dei componenti, il Qatar, aveva dimostrato un’indipendenza e un attivismo sempre maggiore, soprattutto con il passaggio del potere dall’Emiro Ahmad bin Khaifa al Thani al figlio Tamin nel giugno scorso.
Infatti, nel corso delle varie “primavere” che hanno sconvolto tanti e tanti stati, Arabia e Qatar si sono spesso trovati su posizioni diverse, ed è stato soprattutto in Egitto, Paese chiave dell’area, che questo si è più manifestato: al tempo della rivoluzione contro Mubarak, il Qatar ha appoggiato la piazza e i Fratelli Mussulmani, mentre i Sauditi offrivano ospitalità al rais in difficoltà. All’elezione di Morsi alla Presidenza, Doha ha esultato mentre Ryhad non ha nascosto il suo disappunto; e quando al Sisi ha mandato per aria il governo della Fratellanza, mentre il Qatar gridava al golpe è stata l’Arabia a gioire e a offrire subito 10 mld di $ per rimpinguare le esauste casse egiziane.
Nel frattempo, anche in Siria, dove dall’inizio della “ribellione” anti Assad i due Paesi conducono una guerra per procura, pagando cifre folli per stipendiare miliziani e mandare armi, le posizioni erano diverse, e solo per non compromettere lo scopo di destabilizzare quello Stato, si sono adattati ad appoggiare fazioni diverse (che spesso si combattono aspramente).
Addirittura, il nuovo Emiro qatariota ha espresso timide aperture nei confronti dell’Iran, e queste alle orecchie saudite suonano come bestemmie, perché tutta la sua politica (se di politica si può parlare per simili maneggi) è volta a ostacolare in qualunque modo l’affermarsi di un’area sciita di collaborazione che vada da Teheran a Beirut.
Sia come sia, l’Arabia Saudita, subito seguita dai suoi docili scudieri Bahrain ed Emirati, ha deciso il ritiro del proprio ambasciatore da Doha, motivandolo addirittura con “la sicurezza e la stabilità del Paese”. E non basta: la Corona ha emanato un editto con cui i Fratelli Mussulmani vengono definiti “organizzazione terroristica” al pari di al-Qaeda, e insieme hanno messo il Fronte al Nusra e lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante che fino a ieri, ha foraggiato alla grande per la sua guerra in Siria e per destabilizzare l’Iraq. Di più: re Abdallah ha concesso 15 giorni ai sauditi che combattono in Siria (che ufficialmente sono circa 1.200, nella realtà assai di più) per tornare in patria, pena una condanna assai pesante, fino a vent’anni di carcere.
Che cosa poi il regime saudita intenda fare di questi “pendolari della jihad”, da anni (e tanti) iscritti al libro paga e lautamente retribuiti, non è detto: l’esperienza dell’Afghanistan è ancora sotto gli occhi, quando i mujahidin tornati divennero la manovalanza del terrorismo in tutto il mondo. E a guardar bene, la serie di norme ufficialmente anti terrorismo emanate con i decreti, sono chiaramente mirate a reprimere ogni dissenso interno, non certo a proteggere il Paese.
Il fatto è che fra gli Stati del Golfo è in atto un riposizionamento imposto dai fatti; malgrado i fiumi di petrodollari e gli sforzi compiuti, i risultati mancano: in Siria la guerra per procura vestita da “ribellione” non riesce ad affermarsi e perde terreno; in Libano, malgrado gli attentati sanguinosi, la compattezza del Paese regge e monta la rabbia verso i terroristi; in Iraq, grazie alle divisioni fra gli Sciiti, l’insorgenza sunnita alza la testa, ma l’Iran (e questa è la posta più importante) passo dopo passo sta venendo fuori da quelle assurde sanzioni che l’avevano posto ai margini. I sauditi, e i loro alleati, sanno anche troppo bene che quando Teheran potrà operare liberamente il loro gioco sarà finito: petrolio, influenza politica nell’area, tutto sarà ridiscusso radicalmente. E anche l’Amministrazione Usa, da tanti e tanti segnali, intende porre fine ad una contrapposizione che non le interessa più, anzi, l’ostacola e tanto; ha troppi dossier da chiudere nell’area e senza l’Iran sa di non poterlo fare.
Da qui le contorsioni di Ryhad. Come finirà, abbiamo detto, sarà il tempo a mostrarlo, ma abbiamo la sensazione che la sabbia stia finendo nella clessidra di chi ha giocato con i destini e il sangue di popoli interi per mantenere i propri privilegi.