Africa

Le elezioni in Kenya e l’imbarazzante silenzio di Washington

di Mauro Indelicato

Il Kenya è uno dei paesi africani più importanti, sicuramente tra i più emergenti; la capitale Nairobi, è un centro economico e culturale molto importante, basti pensare che ospita una delle tre sedi ONU sparse nel pianeta, per renderci conto di come il paese dei Masai sia un punto di riferimento per il corno d’Africa e non solo.

Interessi economici, rivalità etniche, scontri di potere, la storia recente di questa nazione non è stata certo facile e da circa cinque anni si sono accentuati diversi scontri che soltanto 24 anni di regime duro da parte di Daniel Arap Moi, al potere fino al 2002, avevano quantomeno lasciato nel cassetto; nel 2007, in seguito alle elezioni presidenziali, lo scontro elettorale tra il presidente Kibaki ed il rivale Odinga, si trasformò ben presto in uno scontro tra le due etnie che i rispettivi candidati rappresentavano.

E così, il paese piombava in una spirale di violenza per il quale adesso è in corso un processo per crimini contro l’umanità presso il Tribunale internazione dell’Aja; il caso ha voluto però, che da queste intricate presidenziali, uscisse fuori il nome di Uhuru Kenyatta, imputato in tale processo e dichiarato vincitore al primo turno con il 50,3% dei consensi.

Il nodo della questione sta qui: il prossimo presidente di uno dei principali paesi africani, la cui crescita annua si attesta al 5%, potrebbe essere un imputato per crimini contro l’umanità.

Uhuru Kenyatta è figlio di Jomo Kenyatta, il “padre” dell’indipendenza del Kenya, alla cui morte poi successe Daniel Moi; è il leader dell’etnia Kikuyu, da sempre dominante nel paese e contrapposti ai Luo di Odinga. E’ tra queste due etnie che nel 2007 andarono in scena scontri a colpi di macete e bastonate, che rischiò di far ripiombare l’Africa nell’epoca degli scontri tra Tutsi ed Hutu nel Ruanda del 1994.

Adesso la situazione rischia nuovamente di ricadere nel caos: manco a dirlo, il leader dell’opposizione, nonché primo ministro uscente, Odinga, ha denunciato brogli elettorali e ha già fatto sapere che farà ricorso alla Corte elettorale per il riconteggio; dal canto suo invece, Kenyatta parla già da presidente in pectore, rischiando di provocare reazioni stizzite da parte dei suoi avversari.

Quello che più impressiona invece delle elezioni keniane, è non soltanto lo scontro tra etnie, ma anche tra gruppi di potere molto forti: sia Kenyatta che Odinga infatti, sono due potenti latifondisti, posseggono interi ettari di territorio del paese, che nel frattempo deve fare i conti però con una disoccupazione al 50% e con l’altro volto di Nairobi, quello delle baraccopoli e dei quartieri senza acqua o fogne.

Le divisioni etniche sembrano quindi solo un pretesto per far avanzare invece rivendicazioni economiche da parte delle sempre più agiate élite, non solo dei Kikuyu, ma anche delle altre popolazioni che vivono in Kenya. Le parole di Mukuoma Wa Ngugi, poeta di Nairobi, possono esprimere al meglio la situazione del paese: “La maggioranza dei kenyani, che siano Luo, Kikuyu, Luhya o altro, sono poveri, il 60% vive con meno di due dollari al giorno e questo riguarda tutti, senza differenze. I ricchi Kikuyu prosperano a spese dei poveri Kikuyu e lo stesso avviene per gli altri. Il richiamo etnico viene sfruttato dalle élite tribali, in modo occulto o palese, per nascondere le cause vere del disagio”.

Un richiamo etnico quindi effettuato solo per favorire una classe sempre più dominante, che causa ad ogni elezione migliaia di vittime in una guerra tra poveri d’altri tempi.

In tutto questo, qual’è la posizione dell’occidente? E’ bene ricordare che di origini keniane è il presidente USA, Barack Obama, che qui ha ancora la nonna, nel cui villaggio gli hanno dedicato, anche se è ancora vivo, già scuole e strade; il Kenya dal governo di Washington riceve un miliardo di dollari all’anno per il contrasto all’avanzata di Al Qaeda in Somalia, Nairobi viene considerato “governo amico”, addirittura all’avanguardia nell’Africa per la democrazia, quasi oscurando del tutto le varie questioni accennate sopra e le tante tematiche inerenti povertà e corruzione.

Ma se la situazione peggiorasse ulteriormente, ossia si arrivi all’insediamento di un imputato condannato per crimini di guerra, gli USA continuerebbero a dare al Kenya i fiumi di dollari che annualmente versano? Come si giustificherebbero questi gettiti di denaro verso un paese governato da una persona accusata di aver aizzato povera gente a massacrarsi a colpi di macete?

Per il momento il governo USA tace, Obama si è solo limitato a dire che il suo auspicio è il superamento delle divisioni e nulla più; come si legge in un articolo del Sole24Ore, uno stesso funzionario della Segreteria di Stato guidata da Johm Kerry, avrebbe ammesso: “Gli Stati Uniti hanno più bisogno del Kenya, di quanto il Kenya ha più bisogno degli Stati Uniti”, segno che in ogni caso, il silenzio di Washington segnerà la “benedizione” anche ad un futuro governo guidato da Kenyatta.

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