Le donne saudite sfidano il regime… alla guida
“Un bambino non potrà essere libero se la propria madre non lo è. Un marito non è libero se la moglie non lo è. I genitori non sono liberi se le figlie non lo sono. La società non è nulla se le sue donne sono niente”. Queste parole di Manal al Sharif, attivista saudita per i diritti delle donne, rendono bene l’idea delle difficoltà e degli ostacoli che le donne dell’Arabia Saudita si trovano ad affrontare quotidianamente.
Le donne saudite subiscono forti discriminazioni in molti aspetti della loro vita, quali la famiglia, l’educazione, l’occupazione e il sistema giudiziario. L’Arabia Saudita è l’unico Paese al mondo in cui alle donne è vietato guidare; il divieto è una fatwa religiosa imposta dagli integralisti wahabiti del Paese; una tradizione assurda che in diverse occasioni ha suscitato il biasimo e la condanna a livello internazionale.
I sostenitori del divieto affermano che consentire alle donne di guidare e di spostarsi liberamente in pubblico rappresenti una minaccia al pudore e alla moralità. Le donne che osano sfidare tale divieto rischiano l’arresto, il processo e possono essere punite a frustate. Nonostante ciò, nel 1991 alcune donne coraggiose sfidarono il divieto di guida, ma 47 di esse furono arrestate, alcune addirittura bandite dai propri villaggi e dai luoghi di lavoro.
Nel 2011, decine di donne saudite hanno lanciato una campagna denominata “Women2Drive” invitando tutte le donne del Paese a mettersi alla guida delle auto e sfidare l’assurdo provvedimento. La campagna ha visto in quello stesso anno la promulgazione, da parte del governo saudita, di leggi atte a limitare e, addirittura, a negare qualsiasi tipo di rivolta verso il regime stesso: questo ha spinto le ragazze di Women2Drive a non organizzare un evento epocale ovvero ritrovarsi, tutte insieme, alla guida delle auto, per le strade di Riyadh ma a compiere il proprio “giro di protesta” singolarmente, per manifestare senza però essere troppo vistose, procedendo in maniera isolata e separata. Hanno filmato se stesse alla guida e i social network si sono rivelati un’ottima cassa di risonanza dell’evento, pubblicizzandolo e raccogliendo consensi e supporto da ogni parte del mondo, la qual cosa ha frenato non poco la violenza della repressione che il governo saudita era pronto ad attuare contro queste coraggiose.
Il 28 dicembre 2013 due attiviste saudite: Samia El Moslimany e Tamador el-Yami si sono messe al volante e hanno documentato in tempo reale, con foto e commenti su Twitter, la propria protesta a Gedda. Sono state fermate dopo pochi minuti e trattenute dalla polizia locale. Sono state rilasciate poche ore dopo l’arresto e solo dopo aver firmato l’impegno a non guidare mai più. Infine, sabato 4 gennaio più di sessanta donne saudite hanno protestato contro il divieto di guidare, attirando su di sé l’attenzione e le ire di polizia e ultraconservatori, mettendo in rete un video che mostra una madre 32enne di Riyadh alla guida della propria autovettura.
Secondo quanto ha dichiarato a Press Tv il 1 dicembre 2013 il commentatore politico statunitense Naseer al- Omari, non esiste in Arabia Saudita una vera e propria legge che vieti alle donne di guidare; esse, quindi, non commettono alcun reato, violano solo una tradizione, rischiando di incorrere, purtuttavia, in pene molto severe. Omari ha osservato, inoltre, che “è vergognoso che i governi occidentali non prendano posizione su quanto accade alle donne saudite, non solo quando si tratta del diritto di guida, ma anche negli altri ambiti della vita sociale e familiare”.
Una nuova campagna di protesta è stata lanciata a settembre e da quattro mesi decine di donne saudite mettono in rete video in cui sono alla guida quasi ogni giorno, secondo quanto riporta Press Tv. Il loro intento non è solo di ottenere il diritto di guidare e potersi spostare autonomamente in pubblico; questa forma di protesta mira ad attirare l’attenzione della Comunità Internazionale, affinché essa faccia pressione sul governo saudita il quale si serve di una distorta interpretazione del Corano per imporre alla donna la sottomissione e l’obbedienza, negandole i diritti più elementari.