Donne saudite rivendicano i loro diritti e la loro libertà
Le donne saudite non possono mettersi al volante in Arabia Saudita, anche se non esiste alcun testo giuridico che vieta loro di guidare. Mentre i tentativi da parte delle donne e dei loro sostenitori di ottenere il permesso di guida si sono moltiplicati ultimamente, le sfide per superare la dura resistenza dei conservatori nei sei mesi di campagna contro il divieto stanno dimostrandosi singolarmente formidabili.
Questa settimana, 70 membri del Congresso degli Stati Uniti hanno firmato una lettera bipartisan consegnata ad Obama, esortandolo a sollevare casi critici di violazione di diritti umani in occasione della sua visita in Arabia Saudita.
Dal 26 ottobre, il primo giorno della nuova campagna, più di cento donne si sono messe al volante, ha dichiarato Eman al-Nafjan, una delle attiviste saudite più conosciute. Ora il governo sembra disposto a lanciare un giro di vite. Mentre è ancora raro vedere donne guidare in Arabia Saudita, è risultato molto efficace l’invio di video e foto di donne al volante agli organizzatori della campagna, che poi caricano i filmati su YouTube quasi quotidianamente. “E’ molto difficile mettere a punto strategie in un luogo dove l’attivismo politico non ha storia” ha detto Nafjan, “Quindi la nostra strategia è quella di mantenere alta la marcia e vedere se le persone si uniscono o no”.
Naseema al-Sada ha riferito che l’atteggiamento del pubblico è cambiato negli ultimi sei mesi, come dimostra il modo in cui si è parlato apertamente della campagna nei media sauditi. “I diritti delle donne non sono più un argomento tabù”, ha aggiunto Naseema.
Gli attivisti dicono che consentire alle donne di guidare avrà un effetto domino per i diritti civili in Arabia Saudita, dove una rigida interpretazione dell’Islam conosciuta come wahabismo è effettivamente la legge della terra. Le donne devono avere il permesso di un parente maschio – di solito un marito o un padre, in mancanza dei quali, un fratello o il figlio – per viaggiare, sposarsi, iscriversi nell’istruzione superiore o sottoporsi a determinate procedure chirurgiche.
“E questo è quello che spaventa la gente: che le donne saranno fuori del controllo totale degli uomini”, ha riferito Sada. Anche se non esiste una legge sui libri che vieta esplicitamente alle donne la guida, il ministero dell’Interno, che supervisiona la polizia stradale in Arabia Saudita, non rilascia patenti di guida per le donne.
Finora, il ministero ha messo in guardia: chi trasgredisce sarà trattato con fermezza. Le donne fermate alla guida sono costrette a firmare impegni a non farlo di nuovo. Se vengono fermate di nuovo, devono firmare un altro impegno. Un parente maschio è chiamato a prelevarle da una stazione di polizia e devono impegnarsi, a loro volta, a non permettere alle donne di guidare.
In un caso, l’auto di una donna è stata confiscata e non è stata più restituita. In un altro caso, uno scrittore e insegnante, Tariq al-Mubarak è stato detenuto per diversi giorni e interrogato quando la polizia ha scoperto che il numero di telefono cellulare utilizzato dagli organizzatori della campagna era stato registrato a suo nome.
Eppure, la risposta del governo si è attenuata rispetto al passato. Durante la prima grande protesta, nel 1990, circa 50 donne si sono messe alla guida. Sono state incarcerate per un giorno, i loro passaporti confiscati e hanno perso il lavoro. Ai loro parenti di sesso maschile è stato vietato di viaggiare per sei mesi.
Nel giugno 2011, circa 40 donne sono state al volante di una protesta scatenata dopo l’arresto di una donna che aveva postato un video di se stessa alla guida. Una donna è stata successivamente arrestata e condannata a 10 frustate.
Ciò che sorprende è che l’Arabia Saudita abbia ottenuto un seggio nel Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, dal momento che continua a compiere gravi violazioni dei diritti per la cui difesa il Consiglio è stato creato; così come pone forti interrogativi il fatto che le autorità saudite non abbiano consentito l’accesso nel loro territorio agli osservatori per i diritti umani dell’Onu che dovevano verificare presunte violazioni.
di Cristina Amoroso