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Lady Pesc, l’ultima bufala renziana che pagherà il popolo italiano

di Salvo Ardizzone

In questi giorni i media si sono dedicati molto alla nomina di Federica Mogherini, attuale Ministro degli Esteri, a Commissario per la Politica Estera e la Sicurezza (Pesc) della Ue, presentata come un successo personale di Renzi, che l’ha imposta malgrado le perplessità di molti Paesi dell’Est europeo (che la considerano troppo vicina a Mosca), e i dubbi generali sulla sua scarsa esperienza. Ma quella nomina è stata un successo anche per l’Italia?

Diciamolo subito: la carica, magari prestigiosa nel nome, nella sostanza è un semplice “pennacchio”, poco più d’un titolo onorifico perché la Ue non ha, né tantomeno i suoi membri vogliono che l’abbia, una propria politica estera (di cui i singoli Stati sono più che mai gelosi seguendo ciascuno la propria immediata convenienza) e men che meno una comune politica della sicurezza. Ne abbiamo avute infinite conferme a ogni crisi, da ultimo in occasione dell’Ucraina, quando hanno preso posizione per blocchi d’interesse o giocando in proprio a prescindere da tutti come la Germania. Lo sapeva (e voleva) l’Inghilterra, mettendo a quella carica Catherine Ashton, che s’è distinta proprio per non far nulla, che era esattamente ciò per cui era stata scelta: non interferire né tantomeno incidere sulla politica estera dei singoli Stati europei. 

Ciò malgrado, la nomina della Mogherini a Lady Pesc è stata tutt’altro che una passeggiata; a fine luglio, l’insistenza dell’Italia per quella carica ha generato uno stallo che ha rinviato tutto d’un mese; nella dura trattativa che è seguita, sono state molte le offerte rifiutate, le occasioni perdute e gli impegni presi negli ovvi “do ut des” per conseguire quell’obiettivo. Ciò considerato, se si esclude l’aspetto mediatico a cui il nostro Premier non sa resistere, il bilancio è in perdita netta. Ci sono infatti almeno tre aspetti da considerare. 

La trattativa è caduta in un momento rovente per la Ue, coi venti di guerra ucraini che radicalizzavano le posizioni dei Paesi dell’Est Europa, e, purché Roma ritirasse quella candidatura scomoda, vista troppo vicina a Mosca, le è stato offerto molto, probabilmente quello che in altre condizioni non sarebbe stato pensabile.  

In barba alla legge non scritta per cui uno stesso Paese non può avere più d’una Presidenza, all’Italia, che già ha Draghi al vertice della Bce, è stata chiaramente ventilata la carica di Presidente dell’Unione (quella che è stata di Van Rompuy) per Enrico Letta; un’ipotesi tuttavia, non praticabile, stante i suoi noti rapporti col Premier Renzi. Inoltre, non sappiamo quanto sarebbe stato utile al Sistema Italia, visti gli stretti legami del soggetto con centri di potere internazionali con cui il Paese non ha nulla a che spartire, anzi. 

Discorso ben diverso sarebbe stato per la carica di Commissario alle Politiche Agricole, per cui Roma avrebbe avuto una candidatura fortissima in Paolo Di Castro, attuale Presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo; per capire quanto pesi quell’incarico, basta ricordare che gestisce circa il 50% del bilancio dell’Unione. Per un Paese come l’Italia, che avrebbe nell’agricoltura un pilastro in quantità ed eccellenza delle produzioni, sarebbe stata una scelta strategica assai più di altre; tra le altre cose, avrebbe potuto saldare un fronte delle agricolture mediterranee, con possibili sviluppi politici in campi assai più interessanti. Sarebbe stata, ma occorreva appunto una decisione politica che ne avesse riconosciuta la rilevanza, la possibilità di sviluppo e l’incidenza sul Sistema Italia; insomma la volontà di puntare su qualcosa di concreto con un programma per metterla poi a frutto; evidentemente troppo complicato per chi preferisce volteggiare in fretta sulle cose, e poi, diciamolo, un risultato troppo poco mediatico da spacciare in un tweet, così è stato scartato in partenza. 

Il secondo aspetto da considerare nel tirare le somme, è quello degli accordi stretti sottobanco per assicurare il sostegno dei Paesi “pesanti” all’elezione; è un bilancio che solo il tempo svelerà nei fatti, ma, per come vanno le nomine, vediamo che la Germania, con Juncker, Tusk e altre più che probabili pedine a lei obbedienti, ha blindato la prosecuzione delle politiche che ritiene convenienti per sé anche se tossiche per gli altri. In questo scenario, i pegni che l’Italia sarà presto chiamata a pagare saranno pesanti, e riguarderanno proprio il settore che più c’interessa: l’economia e l’arcigna quanto ottusa gestione delle regole. 

Il terzo aspetto contempla la nostra politica e i nostri interessi più in generale, che divergono, e assai, da quelli di molti altri Stati della Ue; la Mogherini sarà costretta per tutto il suo mandato a cercare di farsi perdonare quel peccato originale che le è stato rinfacciato: l’eccessiva vicinanza a Putin, o comprensione delle sue ragioni che dir si voglia, che poi significa prendere le distanze dagli interessi veri del Sistema Italia, del suo sistema industriale che ha bisogno dell’energia russa e che laggiù ha tanto da poter fare per svilupparsi. Se lei è la nostra Lady Pesc, per noi sarà doppiamente dura doverla sconfessare alla bisogna, in ogni caso ci perderemmo assai in credibilità complessiva. 

Come si vede, gli aspetti negativi sono troppi, in un’operazione che lascia in mano a Renzi un gingillo con cui baloccarsi dinanzi ai media, ma ben poco all’Italia. È evidente che per lui va bene così, è ciò che voleva: riflettori e l’attenzione dei “Grandi”, in fondo ben felici d’accontentarlo in questo modo, perché Roma ha tutto fuorché il peso per dare sostanza a quella carica (discorso diverso sarebbe stato per l’unica che il peso ce l’ha, Berlino, che al momento mira abilmente a cose più concrete). Il conto, quando sarà il momento, lo pagheremo tutti.        

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