L’abbattimento del boeing malese rinfiamma la crisi ucraina
L’abbattimento del Boeing 777 della Malaysia Airlines sui cieli dell’Est Ucraina, ha riportato quella crisi alla ribalta, togliendola dall’ombra in cui molti avevano interesse a relegarla. L’Ue per prima, che, paralizzata da interessi diversi fra chi con la Russia vuole collaborare (vedi l’Italia) e chi vuole contrapporsi senza se e senza ma (vedi Polonia e Paesi Baltici), finisce per rimanere immobile, certificando la propria irrilevanza come organismo politico (è in questa ottica che deve essere visto il rinvio di almeno un mese e mezzo della nomina del responsabile della politica estera presso la nuova Commissione; per molti un favore, perché evita che si debbano assumere posizioni comuni sulle varie crisi che stanno incendiando il mondo, anche sulla soglia di casa come a Gaza).
Ma, malgrado l’ipocrita volontà di tanti di spazzare gli eventi sotto il tappeto, lasciando che seguano il loro corso sanguinoso, la tragedia del volo MH17 fa segnare una svolta a quel conflitto. Riassumendo i fatti, l’area ove è avvenuto il disastro è costantemente monitorata dai satelliti Sbirs Geo 1, Sbirs Geo 2 e Usa 184; essi hanno fissato su foto satellitari il lancio del missile da una zona sotto lo stretto controllo dei separatisti filo-russi, l’impatto sul jet e la sua distruzione.
Le milizie hanno immediatamente bloccato la zona dove sono caduti i rottami (in questo modo, non si potrà mai sapere con obiettività se reperti utili a un’inchiesta siano stati fatti sparire), e subito è cominciata la confusione sulle scatole nere, annunciate per recuperate, poi smarrite, secondo alcune voci addirittura inviate a Mosca. Contemporaneamente sono girate foto su un lanciatore Buk Sa11 a cui mancava un missile, che veniva spostato dalla zona sotto la scorta di elementi del battaglione Vostok (un reparto di livello spetznatz che Mosca ha inviato nell’area). Inoltre, da diverse intercettazioni emergono chiari riferimenti all’abbattimento dell’aereo, sembra scambiato dai separatisti per un cargo militare Antonov di Kiev, come altri già abbattuti nelle scorse settimane.
E poi il missile usato: il Boeing volava ad almeno 10mila metri e non poteva essere colpito da un Manpads (un missile antiaereo a spalla) ma da un Buk Sa11 o (assai meno probabile) da un S300. Si tratta di complessi pesanti, che non sarebbero passati inosservati nell’area sotto il pieno controllo degli indipendentisti se Kiev avesse provato ad introdurveli, mentre i filo-russi, ormai è acclarato, di quei mezzi dispongono, sia perché ce n’erano nelle basi dell’Esercito Ucraino occupate, sia perché sono arrivati con tanto altro materiale dal confine russo. D’altronde, la stampa internazionale ha rivelato che diversi team di miliziani, nelle ultime settimane, hanno seguito in territorio russo training sull’uso di missili antiaerei pesanti, e i loro movimenti sono stati documentati da servizi di intelligence (gli stessi che, ovviamente, hanno fatto si che le notizie venissero diffuse).
Francamente sembrano un po’ troppi gli indizi per essere una montatura grossolana, e la stessa reazione di Putin, insolitamente contenuta dinanzi all’enormità del fatto, è indice che non si tratti d’ipotesi campate per aria. Un evento simile sta a dimostrare come, in un contesto del genere, il controllo degli avvenimenti possa sfuggire di mano in qualunque momento, con risultati disastrosi.
In realtà, Putin non ha alcuna voglia ne interesse ad alzare ancora il livello di una crisi che minaccia la borsa di Mosca e sta facendo fuggire frotte di capitali, assai più di quanto l’economia russa possa permettersi. La prospettiva di nuove e più pesanti sanzioni che, dinanzi a fatti così eclatanti, anche i riluttanti europei sarebbero costretti ad applicare, sarebbe un disastro per la Russia e una sciagura per l’Europa; solo per gli Usa costituirebbero un prezioso regalo, e infatti ora le invocano ad alta voce.
Continuare su questa via sarebbe un colossale autogol per tutti tranne per Washington che, in un colpo solo, spezzerebbe la cooperazione fra Ue e Mosca e bloccherebbe il sorgere di egemonie nell’area eurasiatica.
La strada sarebbe quella di riesumare gli accordi del 20 febbraio, poi superati dal golpe della Piazza sobillata (appunto dagli Usa): riconoscere una larga autonomia alle province dell’Est, ammettere il russo come seconda lingua in quelle zone, riformare la costituzione e magari indire nuove elezioni, ma stavolta cercando di tenere ai margini gli estremisti delle due parti che giocano al tanto peggio tanto meglio. Insomma riconoscere ciò che è evidente: che Russia e Ucraina hanno troppo in comune per essere nemiche, ma anche troppe diversità per essere una cosa sola.
Purtroppo da allora è corso molto, troppo sangue, e i fossati son divenuti assai più profondi. Più che mai c’è la mancanza di un’Europa che abbia una politica complessiva sua e tratti da pari a pari con Mosca; invece assistiamo al solito balbettio mentre gli Stati agiscono per proprio conto: Polonia, Paesi Baltici e altri dell’Est seguono improbabili sogni revanscisti contro la Russia (con gli Usa a incoraggiarli), Berlino vuol giocare in proprio su tutta l’area e gli altri a barcamenarsi dietro al gas e al petrolio di Gazprom e Rosneft.
Ancora e sempre, così l’unica a vincere sarebbe Washington. Sarebbe ora che si cambiasse copione.