La telenovela del Canale di Panama
Si, è proprio una telenovela, se non fosse che da essa dipendono interessi immensi: il destino economico di una nazione e i flussi del commercio mondiale; ma passiamo ai fatti.
Il Canale di Panama in agosto di quest’anno compie cent’anni; voleva festeggiarli col suo raddoppio, ma è certo che non ci riuscirà e rinvierà almeno di un anno l’avvenimento, ma questo è il meno. Il fatto è che quando fu inaugurato, nel 1914, era stato pensato, ovviamente, per navi ben diverse dai colossi che oggi solcano i mari trasportando container e petrolio. Le “Panamax” attuali (quelle che ora l’attraversano, e sono circa 14mila all’anno) son lunghe al massimo 294 metri, con un pescaggio di 12 metri e stipano a bordo fino a 4.000 container; tanti, certo, ma tutt’altra cosa dai cargo che viaggiano facendo la spola dall’Oriente ai porti dell’Europa e della Costa Est degli Usa: occorreva ampliarlo per accogliere anche quei colossi, così nel 2007 son iniziati i primi lavori.
L’appalto per le opere importanti, da 3,2 mld di $, era stato vinto nel 2009 dal Consorzio Europeo Gupc (Grupo unidos por el canal), composto dalla spagnola Sacyr e dall’italiana Impregilo (che ha il 38%), con partecipazioni più modeste della belga Jan De Nul e della panamense Constructora Urbana; uno schiaffo sonoro per la statunitense Bechtel, che pensava d’aggiudicarselo a mani basse, credendo (come sempre) di giocare sul sicuro nel “giardino di casa”.
Subito aveva strillato che Gupc aveva vinto grazie a un prezzo troppo basso, che avrebbe portato ad una revisione dei prezzi in corso d’opera; il fatto vero è che il progetto Bechtel era stato respinto per carenze tecniche prima ancora d’entrar nel merito del costo. Sia come sia, i lavori son andati avanti, ma ecco venir fuori i problemi: l’Autorità del Canale di Panama (Acp) ha prima chiesto l’impiego d’un calcestruzzo diverso, più costoso, e poi un’infinità d’altre modifiche (suggerite chissà da chi…); ma tutte e 99 le richieste di adeguamento dei costi avanzate da Gupc a seguito delle modifiche son state respinte in blocco dal governo panamense.
Tra l’altro a maggio ci sono le elezioni, e il Presidente uscente (e non più ricandidabile), il socialdemocratico Ricardo Martinelli, che vuole lasciare il suo posto alla moglie o a qualche fedelissimo del suo partito, intendeva risalire nei sondaggi con una crociata nell’interesse del Paese; certo, qualche dubbio (e più d’uno) viene sulla trasparenza della cosa se si pensa che Panama s’è affidata per l’assistenza legale ad un mega studio statunitense, guarda caso lo stesso che segue gli interessi della Bechtel.
Il nodo è comunque venuto al pettine: si tratta di 1,6 mld di $ che le imprese chiedono per gli adeguamenti, disponibili anche ad una transazione che abbatta la cifra; ma Jorge Quijano, Amministratore del Canale, s’è impuntato e ha minacciato di stracciare il contratto se Gupc non avesse fatto marcia indietro entro il 20 gennaio, e ha pure detto che non intendeva sottoporsi ad alcun arbitrato, come invece previsto negli accordi in caso di contrasti.
A questo punto la cosa è divenuta seria, e lo stesso Presidente Martinelli ha compreso che la storia stava per sfuggirgli di mano trasformandosi in un boomerang micidiale; infatti i lavori son già stati svolti almeno al 70% lungo gli 81,3 km del Canale; le paratie e le valvole delle chiuse son già pronte, realizzate in Italia dalla Cimolai; ed ogni anno di ritardo nel completamento, fa perdere almeno 2 mld di $ a Panama. D’altronde, sarebbe troppo tardi per rimettere in corsa la Bechtel (come ventilato da qualcuno): ci sarebbero immensi aggravi di costi per la rimodulazione del progetto e ritardi enormi. Gli stessi Stati Uniti han cominciato a premere per una soluzione, perché i porti commerciali della Costa Est han fatto massicci investimenti per poter accogliere i super cargo: bestioni lunghi 366 metri, con 18 metri di pescaggio, capaci di imbarcare fino a 12mila container per volta.
E allora? La disputa, entrata nel vivo a dicembre, è ancora in corso, fra minacce incrociate e l’interruzione dei lavori che ha messo a rischio almeno 10mila posti di lavoro; anche la compagnia assicuratrice Zurich, che garantiva l’esecuzione delle opere con una fidejussione, s’è fatta sentire, minacciando di ritirare la garanzia.
A questo punto Martinelli per primo cerca una via d’uscita dal ginepraio dove s’è cacciato, e preme anche lui su Quijano, ma l’Amministratore del Canale, dopo aver fatto tante fiamme e tanto fuoco, ha difficoltà a fare marcia indietro.
Alla fine l’Autorità del canale ha ripreso finalmente i negoziati, ed è stata abbozzata una soluzione (che poi era stata ventilata da Gupc fin dall’inizio): nella sostanza gli extra costi sarebbero gravati per metà sul Consorzio e per metà sul Canale. Così, con qualche altro passaggio, i lavori son ripartiti, ma attenzione: per salvar la faccia e non dire d’aver fatto marcia indietro, Panama ha accettato in extremis d’assoggettare tutto all’arbitrato internazionale di Miami. La telenovela ha ancora qualche puntata.
A noi qualche conclusione su questa storia che ha dello stupefacente; primo: è incredibile la superficialità e l’arroganza con cui vengono trattate questioni che rivestono importanza così essenziale per una nazione (Panama) e per l’intera collettività internazionale (le rotte che passano per il Canale).
Secondo: è altrettanto incredibile come contratti, accordi e normative internazionali possano essere trattati alla stregua di pezzi di carta da stracciare a discrezione.
Terzo: e consentiteci, questo si che ci fa piacere, un colosso Usa pieno di spocchia s’è dovuto rassegnare al fatto che, anche nel “giardino di casa”, non è detto che possa fare comunque i propri comodi.