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Riserve energetiche in Europa, un rischio non ancora calcolato

di Salvo Ardizzone

Nella foga d’assoggettarsi ai desideri della Casa Bianca, con infinita leggerezza (e malafede) politici e sedicenti analisti continuano a sostenere la favola che l’Europa debba affrancarsi dalla dipendenza energetica russa. Lasciamo da parte quanto sia suicida e controproducente per la Ue una contrapposizione con un Sistema Paese che sarebbe naturalmente sinergico con quello europeo; è il fatto in sé ad essere impraticabile, come le soluzioni che vengono ventilate con ignoranza e dolo manifesto.

Per dimostrarlo citeremo alcuni semplici numeri: secondo i dati Gazprom Export, largamente coincidenti con quelli resi dall’Eni in audizione al Senato, la domanda di gas in Europa crescerà dai 478 Gm3 (miliardi di metri cubi) all’anno del 2014 ai 605 Gm3 nel 2025, e salire fino ai 632 nel 2035. Lasciando perdere gli orizzonti più lontani, è un fatto che l’Europa avrà bisogno di più gas nei prossimi dieci anni. Contemporaneamente, la produzione degli storici Paesi europei produttori è avviata a un rapido declino: Norvegia, Olanda e Scozia hanno già superato l’output produttivo e non potranno mantenere l’attuale ritmo di estrazione; inoltre l’Olanda, con tutta probabilità, dovrà addirittura fermare le attività nell’area di Groningen per l’alto rischio sismico conseguente all’eduzione di gas. In una parola avremo bisogno di più gas producendone di meno.

Le alternative segnalate dalla Commissione Europea, imbeccata dagli Usa, risiedono nei giacimenti offshore del Mediterraneo orientale (segnatamente quelli reclamati con dubbia legittimità da Israele), in quelli croati di Krk e nello shale gas. Si tratta di soluzioni nella sostanza inadeguate alle necessità ed economicamente poco sostenibili, soprattutto per quanto attiene allo shale, reclamizzato solo per sponsorizzare le aziende americane leader del settore.

In un primo momento i decisori europei, sempre su suggerimento di Washington, avevano addirittura raccontato di poter sostituire il gas russo (146,6 Gm3 nel 2014) con lo shale americano, dimenticando non solo la mancanza di infrastrutture di liquefazione negli Usa e rigassificazione in Europa adeguate ai volumi, ma sorvolando sul fatto che, a conti fatti, Usa e Canada potranno esportare al massimo 40 Gm3 all’anno, e che in gran parte destineranno quelle produzioni in Asia sulla base di contratti assai più remunerativi.

Ancora si è parlato del Nord Africa, in una suggestiva narrazione di integrazione Nord–Sud: d’accordo, il gas laggiù c’è, e tanto, a conti fatti dalla sola Algeria dal 1973 ne abbiamo importato più che dalla Russia, ma è il passato. Di Libia è inutile parlare, dopo l’assurda avventura criminale lanciata da Francia e Inghilterra proprio per impadronirsi di quelle risorse sottraendole all’Eni. Per l’Algeria il problema non sta certo nelle riserve, ma è gas virtuale senza enormi investimenti per rivitalizzare un comparto decrepito, ingessato da molti anni da un Sistema Paese paralizzato che non sa/vuole decidere sul proprio futuro e che non sa/vuole darsi una politica energetica.

Infine si è parlato, anzi, straparlato del cosiddetto “Corridoio meridionale”, tre gasdotti che dovrebbero portare il gas dal Caspio, in specie quello dell’Azerbaigian; peccato che si tratti di una decina di Gm3, al massimo 16–18 sfruttando al massimo risorse limitate e di difficile estrazione. In teoria andrebbe meglio se a quello s’aggiungesse quello turkmeno e kazako, ma in teoria, perché entrambi gli Stati preferiscono rifornire a prezzi maggiori i mercati dell’Oriente e non hanno alcun interesse a scontrarsi con la dichiarata ostilità di Mosca al progetto, e con difficili conflitti di sovranità sulle acque del Caspio con altre Nazioni rivierasche.

Come si vede, allo stato non sono disponibili altre risorse al di fuori di quelle russe, e nel frattempo la Ue sembra non aver compreso minimamente la portata e l’effetto delle contromosse messe in campo da Mosca per parare la guerra che le è stata dichiarata. Gli obiettivi del Cremlino sono due: evitare di far transitare attraverso l’Ucraina le sue forniture all’Europa centro-meridionale e diversificare i mercati, liberandosi dalla “costrizione a vendere” al Vecchio Continente in mancanza d’alternative.

Il 7 maggio l’amministratore delegato di Gazprom, Aleksej Miller, ha annunciato l’accordo con la società turca Botas per la realizzazione di un gasdotto denominato Turkish Stream che dovrebbe entrare in funzione entro il 2016; a regime porterà 63 Gm3, di cui 49 destinati all’Europa tramite il confine greco (di accordi col Governo greco s’è già parlato). Già nel 2014, comunque, attraverso l’Ucraina è passato solo il 39% delle esportazioni di gas per il Continente, a fronte del 61% del 2012.

Consapevole che Kiev, spinta da Washington, continuerà a cercare lo scontro per far deflagrare la crisi, non intende accollarsi i 19,5 Mld di dollari da spendere per ammodernare il fatiscente sistema di strasporto del gas ucraino e, in ogni caso, non vuole lasciare a un Governo ostile e praticamente in bancarotta l’arma di ricatto sul flusso del gas.

Inoltre, dopo un’attenta analisi Gazprom ha concluso che il trend di crescita della domanda di gas dei mercati asiatici è assai più sostenuta di quella europea e più redditizia; con gli accordi del maggio 2014, successivamente integrati, Mosca s’è procurato uno sbocco a regime per 68 Gm3 annui verso la Cina, sfruttando il gas di giacimenti siberiani prima inutilizzati. Nel frattempo, anche grazie alla partnership sempre più intensa stretta con Pechino per espellere dalla piattaforma eurasiatica l’influenza di Washington, sono in fase di conclusione nuovi accordi con i Paesi dell’Estremo Oriente e con l’India per ulteriori, massicce forniture e per le relative infrastrutture.

Ricapitolando, la Ue ha spezzato un naturale asse di cooperazione, spingendo chi la riforniva a rendersi indipendente dal mercato europeo, con future, ovvie, ricadute sui prezzi di una materia prima di cui avrà sempre più bisogno e che non sa dove altro procurarsi: un capolavoro di autolesionismo, accettato ad occhi chiusi per pura sudditanza ai voleri d’oltre Atlantico.

E l’Italia? Come al solito è fra quelle che rischia di più, con le forniture libiche fuori gioco, quelle algerine che decrescono insieme alla residuale produzione interna, e tutta l’attuale importazione russa al momento appesa alla crisi ucraina. Un capolavoro nel capolavoro che sarà in qualche modo temperato solo se Roma saprà sfruttare l’occasione del Turkish (Greek) Stream, cosa che, visti i soggetti ed i precedenti, è tutt’altro che assodata.

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