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Sovranità di uno Stato passa anche dal suo sistema Difesa

Nel mondo quale oggi viviamo, uno Stato che voglia dirsi ed essere sovrano non può non avere uno strumento di Difesa che tuteli la sicurezza del proprio Popolo e gli interessi del proprio Sistema Paese; l’impiego d’un tale strumento dovrebbe rispecchiare l’espressione stessa della sovranità, in quanto è (o almeno così dovrebbe essere) funzione della politica e della strategia che uno Stato pone in essere a difesa dei propri cittadini. Ma l’Italia ha espresso questa politica, questa strategia? E con quali criteri ha definito lo strumento? È coerente alle risorse (tutto sommato pur sempre ragguardevoli) investite in esso, e soprattutto agli scopi?

Concordiamo che parlare di cose militari, perché di questo si tratta, può dar fastidio a molti, ma non si possono ignorare; semplicemente esistono e sono pure di grande rilevanza. È infatti rilevante, e ci dovrebbe riguardare tutti, constatare che l’impiego di militari e mezzi italiani è sempre stato a sostegno di strategie e interessi che, con quelli del Sistema Italia nel suo complesso, poco o nulla avevano a che fare. E questo è di un’evidenza lampante da quando il mondo non è più diviso in blocchi; caduto il Muro, e con quello l’alibi che ci inchiodava in uno dei due campi, le cose han continuato a marciare allo stesso modo, e le decisioni per le nostre azioni, per le nostre scelte di campo, han continuato e continuano ad esser prese fuori dal nostro Paese, che è e resta privo d’una propria strategia a tutela di quelli che dovrebbero essere gli interessi autentici.

Per rendersene conto basta pensare alla lunghissima serie di missioni e interventi più o meno “umanitari” che hanno visto accodarci sempre al nostro “tutore” a Stelle e Strisce, ma non solo; ultimamente abbiamo pure imparato ad aiutare chi scendeva in campo bandiere al vento, con l’unico scopo di sostituirsi a noi, scalzandoci da interessi antichi, com’è accaduto spudoratamente in Libia coi risultati che vediamo tutti. La verità è che al di fuori della politica che ci dettano, non riusciamo ad averne alcuna nostra.

Il Ministero della Difesa ha redatto un Libro Bianco; si tratta di un documento politico con cui il Governo, in funzione degli obiettivi e delle strategie del Paese, traccia le linee della Difesa e illustra le risorse e i mezzi con i quali perseguirli. Trattandosi dell’espressione degli interessi d’una Nazione, e della definizione dei mezzi per conseguirli e tutelarli, intervengono i Ministeri degli Esteri, dell’Economia e dello Sviluppo Economico. Anche se non ha una cadenza annuale (non può averla, vista la portata del documento) in molti altri Paesi è abbastanza comune rivedere obbiettivi, strategie e risorse ogni due o tre anni; negli altri Paesi appunto, l’ultimo nostro risale a dodici anni fa, segno evidente dell’inutilità della cosa (le decisioni son pur sempre prese, ma altrove) oltre che dell’esasperante dilettantismo di chi si succede a governarci.

Sia come sia, il Libro Bianco si farà, ma, invece d’essere il frutto di studi, riflessioni e approfondimenti fra i diversi Ministeri per tracciare la rotta al Sistema Italia e tutelarlo, viste le premesse (che si son viste già tutte) sarà un documento preconfezionato per giustificare stanziamenti, spese e acquisizioni che si vogliono calare nel Bilancio della Difesa: l’ennesima presa in giro, e d’altronde, per come stanno le cose, cosa se ne farebbe l’Italia d’uno strumento simile? Se appena si facesse un’analisi seria, come s’usa altrove, verrebbe fuori la necessità di un’inversione a “u” rispetto  a troppi temi: l’immaginate mai possibile dati gli attori che abbiamo sulla scena?

Ma già che ci siamo c’è ancora un altro tema: uno strumento militare, piaccia o no, l’abbiamo, e costa una considerevole quantità di risorse. La scelta è se lasciare che divenga una via di mezzo fra uno stipendificio e un centro d’acquisto per le lobby industriali (quelle si sempre efficienti per i propri interessi), o provare a farne uno strumento, magari piccolo, ma efficiente alla bisogna.

Senza imbarcarci in una sfilza di dati, sappiate che le spese dello strumento militare si basano su tre capitoli: personale (essenzialmente gli stipendi d’un esercito professionale, come d’altronde quasi ovunque nel mondo); esercizio (i costi per l’addestramento, la manutenzione dei messi, pezzi di ricambio, scorte di magazzino; ciò che dà qualità, professionalità ed efficienza); investimenti (vale a dire l’acquisizione dei sistemi d’arma). Scuola vorrebbe che l’equilibrio delle spese fra quei capitoli sia basato su un rapporto 50/25/25, ma in Italia abbiamo una preponderanza spaventosa dei costi del personale, una ristrettezza imbarazzante sull’esercizio, va un po’ meglio sugli investimenti.

I motivi sono semplici: malgrado i ripetuti tentativi d’intervento, abbiamo comunque una scandalosa quantità di generali, ammiragli e ufficiali superiori a cui garantiamo stipendi e collocazioni, magari tenendo in vita comandi che comandano se stessi; allo stesso modo contiamo un’incredibile pletora di marescialli che, fatte le debite eccezioni, hanno scarse o nulle capacità operative ma che una scrivania e uno stipendio ce l’hanno. In compenso abbiamo pochi sottufficiali e truppa (quelli operativi per intenderci), e spesso siamo costretti a congedarli per ristrettezze di bilancio, dopo aver speso tempo e soldi per addestrarli. Gli investimenti in qualche modo tengono, perché sono le lobby a sostenerli, resta a vedere cosa e quanto comprare se, come visto, non c’è una strategia di fondo a stabilirlo; si va a tentoni, secondo le esigenze e le disponibilità del momento. Ma quanto a usarli quei mezzi è altro discorso, perché addestramento, pezzi di ricambio e scorte sono falcidiati, proprio quello che dà efficienza e sicurezza.

Il discorso è sempre lo stesso, in questo come tutto il resto: non riusciamo ad essere un Paese serio, anzi, non riusciamo ad essere un Paese.

di Salvo Ardizzone

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