Artico tra interessi geopolitici ed ecosistema a rischio
La questione dell’Artico si è riaccesa a maggio dell’anno scorso e prosegue a ritmi serrati nel 2016. La Federazione Russa e gli Stati Uniti hanno mosso i loro passi e mostrato i muscoli. Mosca, in risposta alle esercitazioni della Nato, ha dato il via giorni fa ai War Games, esercitazioni che coinvolgeranno 700 unità di fanteria militare, 12mila soldati e più di 250 unità aeree. E’ stata la crisi con l’Ucraina ad aver riacceso l’intensificazione degli interessi militari e strategici degli Stati Uniti e della Russia sull’Artico. Evidentemente l’anomala riduzione della superficie ghiacciata non preoccupa i grandi della terra, purché permetta la navigazione del Passaggio a Nord Ovest e la rotta verso il Nord Est.
Questo ha ingenerato un contenzioso sulla territorialità dell’artico fra Stati Uniti, Russia, Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia. L’annessione dello spazio artico garantirebbe ai contendenti un aumento dell’estensione dei confini statuali e lo sfruttamento delle risorse naturali, e questi sono i passaggi fondamentali per aumentare la propria influenza a livello globale.
La giurisprudenza delimita la regione artica in quella che circonda il Polo Nord ivi compreso l’Oceano Artico, le estreme propaggini della Groenlandia e dei territori continentali euroasiatici ed americani. Convenzionalmente il limite dello spazio artico viene indicato nell’area dell’isoterma dei 10° rilevato nel mese di luglio. La regione gode del regime di internazionalità decretato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, ma il trattato non è stato ratificato dagli Stati Uniti, che sostengono ferventemente la libertà di navigazione. La mancata adesione degli Usa, di fatto sancisce l’assenza di regolamentazioni internazionali in materia forense.
Nel 1966 venne inaugurato il Consiglio Artico, i cui membri sono gli attuali contendenti, allo scopo di promuovere una politica ambientale artica, ma l’unico riferimento normativo rimane la Convenzione dell’Onu, senza il placet statunitense, che disegna una zona economica esclusiva, Zee, di 200 miglia dalla costa dello stato rivierasco, su cui quest’ultimo può estendere la propria sovranità e sfruttare le risorse naturali. E’ quantomeno curioso che si sforzino di promuovere una politica ambientale artica, quando la loro unica preoccupazione è lo sfruttamento delle risorse di petrolio e gas estratti proprio in spregio delle cautele e del rispetto che si deve all’habitat di quella zona geografica.
L’American Geological Survey, stima che sul fondale artico sia presente una quantità pari al 25% delle attuali riserve mondiali di petrolio e gas naturale. In termini numerici questo si traduce in 90 miliardi di barili di petrolio, ed il 30% della produzione mondiale di gas, pari a circa 1.700 miliardi di metri cubi.
Le maggiori concentrazioni delle riserve naturali sono nel Mare di Kara e di Barents. L’Artico è ricco di nichel, rame e platino, ma anche di risorse ittiche che si attestano al 15% del valore mondiale. Sono queste le cause scatenanti al controllo della regione polare con un acutizzarsi delle relazioni internazionali. La componente del commercio ittico è la concausa del confronto geopolitico fra gli attori principali, ma anche la possibilità di poter usufruire di una nuova rotta che congiungerebbe l’Atlantico al Pacifico, con un notevole vantaggio temporale rispetto all’attraversamento del Canale di Panama.
In base alle osservazioni della Nasa, oltre al Passaggio a Nord Ovest, in un futuro prossimo, lo scioglimento dei ghiacci favorirebbe un’altra rotta verso Nord Est e questo significherebbe la congiunzione del Mare di Laptev, a nord della Siberia, con l’Oceano Pacifico, ossia un collegamento rapido verso i porti asiatici di Cina e Giappone, in pratica la distanza fra Yokohama ed Amburgo sarebbe ridotta di circa 5.000 miglia nautiche, e garantirebbe la certezza di non essere attaccati dai pirati, una delle principali minacce globali al trasporto marittimo.
Le prospettive di percorribilità di queste rotte, potrebbero essere però inficiate dalle condizioni climatiche: infatti è possibile che anche durante l’estate possano non essere libere dai ghiacci. Per ovviare a tale criticità si renderebbe necessario il rinforzo dello scafo delle navi. L’ipotesi implica una maggiore spesa per gli armatori, non solo a livello tecnico ma anche assicurativo; non è da escludere che le tariffe contro le coperture dei rischi possano lievitare sensibilmente in considerazione della perigliosità delle rotte dell’estremo Nord.
Lo scenario geopolitico che si sta delineando nello spazio artico non è di semplice ed immediata intuizione. La Russia sembra essere in vantaggio sugli altri competitori in quanto dispone di due componenti fondamentali: la migliore flotta rompighiaccio e la presenza numericamente più importante di abitanti nell’area contesa. Di fatto questo le garantirebbe una più semplice percorribilità delle rotte artiche ed una manodopera già abituata al clima severo. La Russia sta tentando di recuperare lo status di superpotenza basandosi anche sulle immense risorse energetiche di cui dispone, ma queste sono in esaurimento e dunque la necessità di garantirsi un monopolio energetico ha spinto la leadership verso il Polo Nord, tracciando una politica artica per tutto il 2020.
Infatti l’Artico sostiene gli interessi vitali della Russia con il 60% della produzione di petrolio, il 95% dei metalli del gruppo del platino, ed il 95% del gas naturale. Cifre che rappresentano il 15% del Pil russo. Gli Stati Uniti sostengono il diritto alla libertà di navigazione e questo atteggiamento è valso alla frizione con il Canada, che considera il Passaggio a Nord Ovest come parte integrante delle sue acque interne. Unitamente alla Russia, l’obiettivo è quello di implementare le risorse naturali nazionali, infatti la Bp World Energy Survey ha stimato in dieci anni l’esaurimento delle riserve petrolifere statunitensi.
Questo fa dell’accesso ai giacimenti artici, una questione primaria per l’Amministrazione Usa, ma la mancata ratifica della risoluzione dell’Onu sul diritto del mare, potrebbe essere motivo di svantaggio sui competitori. Infatti, causa l’assenza di un rappresentante in sede di commissione delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti non possono confutare le posizioni dei Paesi Membri. Come atto dimostrativo, l’amministrazione Obama ha dato il via libera alla ripresa delle perforazioni della Shell nell’Artico alla ricerca di idrocarburi al largo delle coste dell’Alaska. Per effettuare le prospezioni il colosso dell’energia sta spostando verso nord le enormi strutture per le perforazioni offshore.
Il Canada rivendica il diritto di sovranità sul Polo Nord, ma i mezzi a disposizione del paese nord-americano non sono paragonabili a quelli dei due attori principali, pertanto il governo canadese, per affermare la propria presenza nell’area, ha scelto sia la strada delle esplorazioni scientifiche quanto quella giuridica, dove ha avanzato una soluzione all’Onu per dimostrare che la dorsale di Lomonosov, facente parte del proprio zoccolo continentale, collega il territorio del Canada al Polo Nord, e dunque le dà diritto di sovranità sull’Artico.
Le pretese della Danimarca traggono origine dalla Groenlandia, la cui popolazione ha però espresso il volere di indipendenza dalla governance danese. Tale soluzione garantirebbe alla Danimarca una notevole riduzione delle spese statali, sia in materia economica che di difesa, ma fletterebbe notevolmente il diritto di rivendicazione sui territori artici ed inoltre registrerebbe una diminuzione degli introiti del settore ittico e sulle riserve di acqua dolce, di cui la Groenlandia è ricchissima.
Come il Canada anche la Danimarca ha implementato le spedizioni esplorative sostenendo un esborso finanziario a favore della Geological Survey of Danmark and Greenland, sempre nel tentativo di inserirsi nel contesto dei grandi esportatori di energia. La Norvegia ha nelle isole Svalbard l’unico possedimento artico, ma rimane un player agguerrito in quanto la produzione di greggio vale il 25% del Pil ed il 50% delle esportazioni. L’Unione Europea ha nel Canada, Stati Uniti e Russia degli attivi oppositori, dove l’oggetto del contendere è nel veto europeo sulla commercializzazione delle pelli di foca.
L’Italia trova però una sua collocazione come paese dedicato alle ricerche scientifiche e per le eccellenze tecniche rappresentate dall’Eni e Finmeccanica, aziende che collaborano soprattutto con la Russia: L’Eni ha una partnership con la russa Rosneft sulle prospezioni artiche, e la Finmeccanica è appaltatrice per la produzione delle navi rompighiaccio. L’egemonia su un territorio viene esercitata anche con la deterrenza delle armi. Gli Stati Uniti hanno messo a punto il Mobile User Objective System, Muos, costituito da quattro terminali terrestri collegati con una rete di satelliti geostazionari. Questo garantisce alla Marina Militare statunitense una connessione con le unità in navigazione nel Mar Glaciale Artico. La funzionalità del Muos è stata testata nell’addestramento Ice Exercise 2014.
L’Icex 14 ha avuto come protagonisti il Comando delle forze subacquee del Comsubfor, ed i tecnici della Lockheed Martin, l’Azienda realizzatrice del Muos. Sono stati trasmessi una notevole quantità di dati con una connessione protetta e stabile nella regione artica in circa 150 ore di attività. Sostanzialmente, si è verificato uno scambio di informazioni dall’Ice Camp Nautilus, a circa 100 chilometri dalla Prudhoe Bay in Alaska, con i sottomarini Uss New Mexico, classe Virginia, e Uss Hampton, classe Los Angeles, in navigazione sotto il ghiaccio artico e rischierati nel Submarine Artic Warfare Program. Il programma addestrativo prevedeva prove di emersione, l’attracco e la sosta nella banchisa polare.
In questo periodo il Muos ha operato per l’Ice Camp Nautilus, le cui antenne ed i sistemi tecnologici avanzati hanno garantito la supervisione e le comunicazioni fra le unità sommerse ed il centro di comando e controllo. Icex 14 ha permesso di monitorare e mettere a punto non solo le comunicazioni, ma anche i sistemi di combattimento e di navigazione in modo realistico dei sottomarini strategici a propulsione nucleare, mezzo fondamentale per l’interdizione marittima e particolarmente adatti ad operare in ambienti ostili ad alta conflittualità. Infatti le condizioni climatiche avverse possono inficiare le operazioni di identificazione in immersione, il lancio dei siluri e le funzioni del sonar a causa della specificità dei profili della propagazione delle onde sonore che possono risultare imprevedibili.
I satelliti statunitensi sorvolano l’artico ogni 30 minuti, con una media di circa 17.000 passaggi annui, e sono coadiuvati da velivoli senza pilota configurati per la raccolta dati. La questione artica è per la Russia una priorità geopolitica, ne è la dimostrazione l’ammodernamento dell’apparato militare. Gli interessi geopolitici dei player artici sembra acuirsi notevolmente, forse anche a causa del contrasto sulle vicende ucraine. Resta valido un arbitrato dell’Onu che possa appianare le contese ed evitare un innalzamento del livello di scontro, ma anche trivellazioni non concordate che potrebbero peggiorare le condizioni ambientalistiche dell’Artico.
Anche la Nato sembrerebbe intenzionata ad aumentare la propria operatività nella regione. Nel 2014 un’importante esercitazione dell’Alleanza Atlantica ha visto la partecipazione di 16mila soldati, anche di nazioni non-Nato come Svezia e Svizzera. Secondo alcuni osservatori, la Nato vorrebbe estendere una partnership anche a Svezia e Finlandia, per stabilire un proprio programma sull’Artico.
L’Artico sta quindi tornando preponderantemente sullo scenario geopolitico globale, soprattutto in un mondo che si avvia alla multipolarità. Questa regione potrebbe diventare nel prossimo futuro un’area di frizione dove gli interessi nazionali di numerosi Paesi tenderanno a collidere. Gli appelli alla cooperazione pacifica, fortemente dichiarata da tutti i governi, sembrano però scontrarsi con i fatti, ma resta auspicabile anche per la salvaguardia del fragile ecosistema artico. Al contrario, l’eccessiva militarizzazione porterebbe i Paesi coinvolti a diffidare gli uni degli altri, causando spiacevoli incidenti diplomatici dalle conseguenze incerte.
Sulla fragilità dell’ecosistema artico
A proposito di fragile ecosistema artico, si parla di vulcani attivi al di sotto del Polo Nord che potrbbero farne fondere il ghiaccio. L’intera dorsale Medio-Atlantica, spaccatura tra le più attive della crosta terrestre, è costellata da una lunga serie di coni vulcanici, in gran parte sottomarini. Non mancano porzioni emerse, pensate a Surtsey (letteralmente – nata dalle acque – un’isola comparsa ex-novo al largo dell’Islanda nel 1963). Come detto però, i coni vulcanici sottomarini sono numerosissimi, tra piccoli e grandi siamo nell’ordine delle migliaia e uno di questi giace lungo la Lomonosov Ridge, a circa 1500m di profondità sotto la banchisa polare, oltre l’88° parallelo nord, ossia a poco meno di 200 km dal Polo nord; a circa 65°W, ossia ad un centinaio di km dalle coste settentrionali della Groenlandia.
Nel passato, il vulcano sotto la Lomonosov Ridge tra il 21 e il 24 novembre del 1957 ha dato chiari segni di attività, con sciami sismici, movimenti della massa oceanica ed emissioni di anidride solforosa. Una stazione scientifica posta sul pack artico ha testimoniato la frattura della banchisa in più punti e la formazione temporanea di giganteschi icebergs. Un altro paio di coni vulcanici sottomarini giacciono anch’essi a circa 200 km dal Polo Nord, ma in direzione delle Isole di Francesco Giuseppe, prossime alle coste della Siberia. Scoperti solo nel 1999, a circa 3800m di profondità, hanno già fornito chiari segni di attività.
Diversi sciami sismici, sono stati registrati proprio tra il gennaio e il settembre di quell’anno. In questi anni è probabile che proprio l’attività vulcanica si stia muovendo sotto traccia e riduca il pack molto, ma molto di più che il riscaldamento globale. Comunque una grande eruzione è già avvenuta in tempi recenti nella zona, mi riferisco al vulcano Vatnajokull, che nel 1996 si sciolse e si frammentò generando una devastante colata di fango, ghiaccio e roccia che tagliò in due l’intera Islanda.
Se qualcosa del genere, o anche più potente, capitasse sotto la banchisa polare, quest’ultima o parte di essa potrebbe frammentarsi e sgretolarsi in migliaia di giganteschi icebergs che, sotto la spinta di un non meno probabile tsunami, potrebbero spingersi verso il nord-Atlantico, con conseguenze tutte da capire, soprattutto in relazione alle propaggini più settentrionali della Corrente del Golfo e della sua derivazione (la corrente di Irminger).
Secondo gli esperti, lo stato di salute e lo stato della banchisa polare non dipendono soltanto da ciò che la sovrasta, ossia la libera atmosfera e il periodico irraggiamento solare; bensì anche da ciò che vi si nasconde nelle profondità oceaniche, al di sotto di essa. Aspetto di fondamentale importanza, ma pressoché ignorato. Da qui la lunga e faticosa battaglia di Greenpeace per scongiurare altre trivellazioni che si possano rivelare fatali al fragile ecosistema artico con possibili conseguenze planetarie.
La rompighiaccio di Greenpeace Arctic Sunrise si trova nel mare di Barents, a nord della Russia, per protestare contro Rosneft, gigante del petrolio russo, che si prepara a perforare il fragile fondale Artico alla ricerca di greggio. Rosneft ha recentemente firmato accordi congiunti per trivellare nell’Artico con compagnie petrolifere internazionali, tra le quali ExxonMobil, Bp e Statoil. Shell aveva promesso di applicare i migliori standard di sicurezza per queste trivellazioni ma il fallimento della scorsa estate e una lunga lista di incidenti e di quasi-disastri, sono una chiara indicazione che anche le “migliori” compagnie non possono trivellare offshore, nell’Artico e altrove, in sicurezza.
Il Presidente Obama e la sua amministrazione hanno dato alle trivellazioni nell’Artico una possibilità e Shell ha dimostrato che queste attività non sono possibili. Cercare di estrarre fino all’ultima goccia di petrolio è insensato: è tempo di abbandonare la nostra dipendenza dalle fonti fossili, di promuovere l’efficienza energetica attraverso le energie rinnovabili che rappresentano la vera alternativa “green” ad una politica ambientale governativa sempre meno sensibile all’ecosistema, ma sempre più pervasiva e insidiosa.
di Cinzia Palmacci