La lunga notte dell’Eni di Gela
Da tempo immemore l’Eni di Gela (inaugurato da Enrico Mattei nel 1965) fa parte del patrimonio visivo di ogni cittadino che vive in quei luoghi. Incastonato nel paesaggio. Stabilimento geograficamente circoscritto e, morfologicamente favorito da acque felici. Segnato per anni, per mille e una ragione, dalla convinzione che la sua esistenza fosse necessaria e opportuna. Infatti, i molti che lavoravano all’Anic (e vi lavorano tutt’ora) erano considerati favoriti dagli Dei: stipendio sicuro, cestino settimanale. Benessere, insomma. Per molte generazioni di giovani un Giano bifronte: di notte uno sfavillio di luci, una città fantasmagorica; di giorno un percorso obbligato per recarsi al mare facendo attenzione a chiudere bene i finestrini per il puzzo malefico che altrimenti avrebbe riempito l’abitacolo. La necessità di un lavoro era più forte del timore che, i fumi della raffineria oltre che stagliarsi nel cielo, potessero addensarsi più in basso, nei corpi. E’ pur vero, che i pensieri più strani trovano posto dove acquattarsi quando non si può scegliere. Risulta difficile capire questo doppio legame per chi non è cresciuto in questi luoghi. Si rischia di essere fraintesi. Doppio legame reciso quando si è avuta, da parte dei cittadini, la consapevolezza del prezzo altissimo pagato in termini di salute.
Gli studi dell’Oms, del Cnr e dell’Iss documentano in modo chiaro che l’aria di Gela, Niscemi e Butera è la più inquinata d’Italia. Non è un caso che i dati forniti dal Registro Tumori di Caltanissetta evidenzino come nel solo triennio che va dal 2007 al 2009, i tumori maligni registrati nell’intera area del nisseno siano stati 3778. Una cifra che dovrebbe fare riflettere tutti.
Atterrisce sapere che nel sangue di queste popolazioni vi sono tracce di arsenico. Uno studio fatto su un campione di 262 persone documenta, in modo incontrovertibile che, come se non bastasse, oltre all’arsenico circolano allegramente nelle vene rame e piombo. Ma lo stabilimento ha in serbo altre sorprese poiché per anni nella raffineria si è prodotta clorosoda, acido clorico e altre sostanze chimiche. In mare c’è una quantità di metalli superiore fino a un milione di volte i livelli consentiti. Dunque, acqua, terra e mare avvelenati.
La Procura di Gela negli anni ha collezionata un numero sostanzioso di esposti riguardanti l’emissione in atmosfera di fumi inquinanti e lo sversamento di sostanze velenose in mare; citiamo quelli dell’associazione Italia Nostra e più recentemente quelli presentati dai Verdi e Green Italia, ma l’elenco di chi ha invocato l’intervento della magistratura è assai lungo. La gente pretende chiarezza, più controlli e maggiore attenzione. Alla luce di quanto emerso dai vari studi sembra del tutto chiaro il nesso tra mortalità porta a porta e territorio.
Eppure le norme, le direttive e i regolamenti a tutela dell’ambiente non mancano. Non a caso la politica ambientale è diventata, soprattutto nell’ultimi anni, uno dei settori di maggiore intervento dell’Unione europea. Basti pensare che un terzo delle infrazioni aperte negli ultimi venticinque anni dalla Commissione nei confronti degli Stati membri sono da attribuirsi al settore della tutela ambientale. Pare chiaro a tutti che l’Italia faccia molta fatica a recepirle, procedendo al traino di quei Paesi ambientalmente “virtuosi” come la Germania e i Paesi del Nord Europa. E’ innegabile che alla radice di ogni problema di natura ambientale risiede un generale squilibrio nei rapporti tra sistemi naturali e sistemi economici e sociali.
Tornando a casa nostra, è il caso dire che le nostre acque non sono felici. Infatti una delle cose che i gelesi hanno appreso in questi ultimi decenni è il dramma che si vive nel dare alla luce una figlio con gravi malformazioni (i numeri fanno rabbrividire). S’imparano tantissime cose: che esiste il dolore che non ha fine, che l’anima soffre anche se nessuno la vede, o la vedono in pochissimi. Le famiglie che assistono bambini malati oltre a dover fare i conti con la sofferenza devono far fronte a mille difficoltà legate alla mancanza di strutture sanitarie adeguate. Tutto ciò li obbliga a intraprendere lunghi viaggi verso il nord per garantire cure più adeguate ai propri cari. Chi pensa a loro? Non certo le Istituzioni.
Oggi per i tanti ambientalisti, per le persone di buonsenso e per chi in questi anni ha lottato strenuamente per la difesa e la salute del territorio, si intravede una luce fuori dal tunnel. Dopo la paventata chiusura dell’intero impianto, che avrebbe causato la perdita di lavoro a circa un migliaio di dipendenti Eni, si è pensato di trasformarla in green. La riconversione verde dell’impianto è indubbiamente una decisione saggia e responsabile che – a parere di tanti – poteva essere presa anni fa. Una scelta che mette d’accordo la necessità di garantire il lavoro ai tanti dipendenti gelesi e il bisogno di arrestare tempestivamente le alterazioni dell’ambiente. Una scelta che denota una maggiore attenzione e sensibilità nei riguardi della salute delle future generazioni. Perché non dimentichiamoci che, di lavoro si deve vivere e non morire.
di Adelaide Conti