La Liaoling dichiarata “combat ready”
La Liaoling, la prima portaerei cinese, la settimana scorsa è stata dichiarata ufficialmente “combat ready”, ovvero pronta al combattimento. Ma non troppo.
La Liaoling è un ex incrociatore pesante porta aeromobili di fabbricazione sovietica, gemello della Kuznetsov, finito alla Marina ucraina dopo la dissoluzione dell’Urss ed acquistato dalla Cina nel 1998.Ci sono voluti 14 anni perché, nel 2012, entrasse in servizio ed altri 4 per la sua dichiarata prontezza operativa. Appunto, dichiarata, perché quella effettiva è tutt’altra cosa.
La Liaoling, con le sue 60mila tonnellate, sarà pure la più grande nave da guerra di un Paese asiatico e potrà pure imbarcare una componente aerea di tutto rispetto (sono previsti 20 Shenyang J-15, una scopiazzatura del Su-33 russo imbarcato, ed una dozzina di elicotteri), ma ha un apparato propulsore in condizioni disastrose che di fatto limitano la velocità operativa a 20 nodi, e l’assenza di catapulte per il decollo (impiega il sistema “stobar”) e l’utilizzo dello “sky jump” prodiero (quella sorta di prua inarcata) penalizza fortemente sia i carichi degli aerei al decollo sia la loro autonomia.
Infine, da quanto si legge nei rapporti, ed è più che ovvio che accada, il livello di addestramento del personale di volo imbarcato e di quello di supporto è assai lontano da quello richiesto.
Con queste limitazioni, è da escludere che la Liaoling possa mai essere impiegata in operazioni militari ad alta intensità quali un attacco aeronavale o la difesa di una flotta. Piuttosto, la dirigenza cinese ha destinato la nave a mostrare la sua sagoma imponente nel Mar Cinese, in attesa che le due (alcuni commentatori sostengono tre) altre portaerei in costruzione entrino in squadra e utilizzino in know-how acquisito nel frattempo con la Liaoling.
Per Pechino, la portaerei è uno “status symbol” da ostentare in un’area che vuole fare propria, e che l’elezione di Trump sembra doverle regalare ancora prima che sia pronta a riceverla.
Solo un anno fa la politica di contenimento della Cina, il “pivot to Asia” fortissimamente voluto da Obama che aveva come fulcro il Tpp, sembrava cosa fatta, legando i Paesi dell’Asia-Pacifico agli Usa in un colossale accordo politico e commerciale che tagliava fuori Pechino. Adesso, con Trump sulla soglia della Casa Bianca, la sessione annuale della Commissione sul Commercio Usa-Cina si apre a parti invertite: il Tpp è ormai morto e la Cina spinge per il suo Rcep (Regional Comprehensive Economic Partnership), destinato ad abbracciare tutti i Paesi dell’area tagliando fuori proprio gli Stati Uniti.
Per i funzionari di Washington deve sembrare un incubo vedere quelle Nazioni, stordite e impaurite dalle piroette politiche dello Zio Sam, riposizionarsi fra le braccia di una Pechino ancora impacciata nel ruolo di superpotenza. E il fatto che la Cina si senta ancora impreparata un simile ruolo è testimoniato dal ramoscello d’ulivo che attraverso il vice premier cinese Wang Yang ha offerto ad una Washington priva di dirigenza per guadagnare tempo, consapevole dei rischi (questi concreti ed alti) di un vuoto di potere in un’area in cui tutti hanno sin’ora attizzato crisi.
Con questi presupposti, per la dirigenza cinese la Liaoling è destinata a mostrare placidamente la bandiera dell’imperialismo di Pechino, nuovo e rampante anche se poggiato su basi tutt’altro che sicure, mentre la potente Uss Ronald Reagan da 100mila tonnellate, malinconico simbolo di un imperialismo in crisi, se ne sta stabilmente ormeggiata in Giappone in attesa che la nuova Amministrazione Usa decida che fare mentre gli equilibri dell’area mutano (anche qui) a velocità vertiginosa.
di Salvo Ardizzone