La finta intervista a Obama: una delle tante “bufale” di Yoani Sánchez
di Redazione
La finta intervista a Obama: una delle tante “bufale” di Yoani Sánchez che i nostri media, al Festival del giornalismo di Perugia, nel nome della libertà di stampa, fanno finta di aver dimenticato
È proseguito anche in Italia il tour di propaganda che Yoani Sánchez, la bloguera cubana anti-sistema al servizio dell’Ufficio di interessi degli Stati Uniti a l’Avana, ha intrapreso non appena il governo di Raul Castro ha cambiato le regole sull’emigrazione e immigrazione nell’isola.
Il sobrio viaggio, di 80 giorni, che chiunque potrebbe permettersi, ha toccato Bahia in Brasile, il Perù, il Canada, gli Stati Uniti [dove, a sorpresa, nell’incontro pubblico le è stato chiesto a viva voce “quanto ti paga la Cia per questo lavoro?”]. E poi ancora l’Olanda, la Repubblica Ceca e la Spagna, dove è stata ricevuta con tutti gli onori tanto dal nuovo premier conservatore Mariano Rajoy quanto dal “vecchio” José Maria Aznar che, non a caso, fu sostenuto al tempo della sua campagna elettorale, dai terroristi anticastristi della Fondazione cubano americana di Miami.
Un viaggetto di quasi tre mesi [Yoani tornerà infatti al Salone del libro di Torino il 29 maggio] che l’eccellenza giornalistica e letteraria della bloguera giustificano. La Sánchez, presentata in entrambe le occasioni dal direttore de la Stampa Mario Calabresi, è nota per la sua obiettività e la sua indipendenza. Specie dopo che Wikileaks ha svelato [nel silenzio imbarazzante dell’informazione italiana] la sua collaborazione con Jonathan Farrar, ex responsabile dell’Ufficio di interessi degli Stati Uniti a l’Avana, che nel 2009 aveva addirittura messo in piedi una presunta intervista della bloguera col presidente Obama per favorirne la credibilità mediatica.
Ci pare giusto ricordare ora questa storia perché, purtroppo, se ne sono dimenticati quelli teoricamente addetti a farlo, cioè i mezzi d’informazione, suppostamente indipendenti, che avrebbero anche dovuto ricordare come il blog di Yoani, nonostante si chiami Desdecuba [“da Cuba”, ndr] sia registrato a nome Josef Biechele e sia ospitato su un server tedesco con un’ampiezza di banda 50 volte più grande dell’intera rete cubana
Quando Wikileaks sbugiardò Yoani Sánchez
e le finte risposte di Obama
Quando il gruppo Prisa, editore del quotidiano El País, una volta bandiera del centro-sinistra spagnolo e ora socio in affari del Nuevo Herald, giornale vicino all’anima più reazionaria dei cubani di Miami, decise di lanciare nell’orbita del successo la bloguera cubana Yoani Sánchez come strumento di fastidio per la rivoluzione, non immaginava, certo, che l’ennesima trama per nuocere a Cuba sarebbe stata scoperta al massimo nell’arco di due anni. Questo perché, nell’attuale mondo in continuo fermento, non era possibile prevedere il fenomeno Wikileaks, la pubblicazione senza filtri da parte di un gruppo di attivisti della controinformazione, di centinaia di migliaia di messaggi riservati, spediti da tutto il mondo al Dipartimento di stato di Washington dai propri diplomatici e funzionari.
Quest’inaspettato e spiazzante contributo alla verità, che i maggiori quotidiani del mondo [New York Times, Guardian, Le Monde, El País, Der Spiegel, etc] avevano giurato di appoggiare senza remore, salvo poi tradirne lo spirito ha causato, come nel caso italiano, veri e propri incidenti diplomatici, problemi scottanti di relazione fra paesi, ma ha anche rivelato e sbugiardato diverse costruzioni fasulle su situazioni o realtà che, specialmente il mondo politico occidentale, ha tentato tante volte, miseramente, di tenere in piedi mentendo, con la connivenza di molti mezzi d’informazione.
Lo scoop della bloguera? Un falso, preparato da Jonathan Farrar, il responsabile dell’Ufficio di interessi Usa a l’Avana
Uno dei colpi preparati, per esempio, dall’Ufficio di interessi degli Stati Uniti a l’Avana nell’incessante tentativo di screditare e mettere al muro Cuba, sempre capace di resuscitare dalle difficoltà, era stato quello di ottenere dal Presidente neoeletto Barack Obama, ancora indiscusso dal mondo progressista, le risposte a sette domande che la malmostosa bloguera affermava di aver ufficialmente inviato alla Casa Bianca e contemporaneamente, almeno così sosteneva, anche al nuovo Presidente cubano Raul Castro.
L’idea era quella di appoggiare la campagna contro la Revolución che la Sánchez portava avanti, con accanimento, sulla precaritetà della vita quotidiana a Cuba [come se nel Sud del mondo il neoliberismo avesse, invece, risolto definitivamente tutti i problemi degli esseri umani] e anche di sostenerla se per caso, quei cattivoni della burocrazia cubana, rispettando le leggi vigenti, non le avessero permesso ancora di uscire dall’isola per andare a ritirare l’ennesimo premio che il mondo occidentale le aveva assegnato: una menzione speciale [per “eccellenza giornalistica”] al Maria Moors Cabot Prize della Columbia University.
Ovviamente tutti i media di questo mondo dell’informazione al guinzaglio e senza più etica avevano fatto da cassa di risonanza a questa notizia che, ora lo sappiamo, era una “bufala”, mentre la vera notizia è venuta fuori più tardi.
Bene, anche se le presunte risposte del Presidente degli Stati Uniti erano precedute dai complimenti per la vittoria del Maria Moors Cabot Prize, il riconoscimento mondiale per lo scoop della Sánchez era usurpato e fasullo. Soprattutto perché sia le domande di Yoani che le risposte di Obama [come confermano i messaggi desecretati da Wikileaks] erano state, in realtà, preparate e poi consigliate da Jonathan Farrar, il responsabile dell’Ufficio di interessi degli Stati Uniti a l’Avana, ideatore di tutta questa messa in scena, ora imbarazzante anche per lo stesso Obama che, nella fiction sceneggiata da Farrar, assicurava Yoani che “il governo e il popolo degli Stati Uniti erano al suo fianco nell’attendere il giorno in cui, finalmente, tutti i cubani avrebbero potuto esprimersi liberamente in pubblico, senza motivo di aver paura”.
I cablogrammi svelati da Assange e soci sottolineano anche l’insistenza del diplomatico nordamericano che dovette aspettare tre mesi, da agosto a novembre 2009, perché da Washington lo autorizzassero a far conoscere il testo che, con molta autonomia creativa, aveva preparato per la Sánchez. C’è un cablo emblematico in queso senso, spedito da Farrar e intitolato “Questions from Yoani Sánchez to POTUS”, dove si scopre che POTUS, nel burocratese nordamericano è l’acronimo di President of the United States. Il cablo chiedeva di approvare le risposte e farle circolare come aiuto alla credibilità della bloguera cubana.
Dopo aver esaltato l’intervista, la grande stampa al guinzaglio ha taciuto quando Wikileaks ha svelato che era una “bufala”
Una fiducia evidentemente mal riposta, perché la Sánchez, che aveva annunciato ai quattro venti di aver mandato le domande anche al Presidente cubano Raul Castro e lo aveva bacchettato per non essere stato capace di rispondere, ha dovuto candidamente confessare a Farrar che no, le domande a Raul Castro non le aveva mai inviate, pur avendo dichiarato, il 20 novembre 2009, casualmente proprio al Nuevo Herald, di essere orgogliosa del “significato giornalistico” di tutta questa operazione. Ma a quali maestri della comunicazione si rifà la Sánchez?
In tutta questa costruzione la storia diventa ancor più grottesca se si considera che, alcuni mesi dopo, Farrar ha scritto altri messaggi ai suoi superiori del Dipartimento di stato di Washington che, come abbiamo sottolineato nel numero 114/115 di Latinoamerica, si possono riassumere così: “Dissidenti storici inaffidabili, noti solo all’estero. Noi li paghiamo ma non servono a nulla, non hanno nessuna influenza sulla vita dell’isola. Credo che sia conveniente puntare di più su Yoani Sánchez”.
Per questa franchezza, non gradita ai congressisti e ai senatori eletti in Florida, Farrar, probabilmente, si è giocato la possibilità di diventare ambasciatore in Nicaragua. I giornalisti “esperti” di Cuba, invece, hanno ancora una volta perso l’occasione di risultare credibili. Hanno completamente ignorato, a cominciare da El País e dal suo corrispondente da l’Avana da vent’anni, Mauricio Vicent [quello a cui recentemente non è stato rinnovato il visto a Cuba], questa storia indiscutibile che abbiamo ricostruito grazie a Wikileaks.
Ma, da vecchio giornalista che ha vissuto con il culto della propria professione e ha pagato un prezzo per questo, vorrei chiedere a quei colleghi che, parlando di democrazia, si autodefiniscono riformisti: “Che ci faceva una lista di domande da proporre al presidente cubano Raul Castro in un cablogramma della rappresentanza diplomatica degli Stati Uniti a l’Avana? E Yoani Sánchez, omaggiata da un’istituzione nordamericana per “eccellenza giornalistica”, non ha sentito il disagio di questa situazione? Possiamo definire questo giornalismo “indipendente”? E quali risultati vogliono raggiungere l’Editorial Prisa e El País appoggiando questa mistificazione del giornalismo?”
La sorte di questa messa in scena è arrivata a una rapida conclusione quando, il 6 novembre 2009, Yoani ha denunciato di essere stata vittima di un tentativo di pestaggio da parte di non meglio identificati agenti governativi, del quale però non poté fornire nessuna prova, nemmeno al corrispondente della Bbc che, in linea col buon giornalismo, era andato con la telecamera per documentare i lividi. Ma questo fa parte del teatrino. Quello che è inaccettabile è che, sistematicamente, qualunque siano gli errori e le illiberalità della Rivoluzione cubana, vengano montate campagne di dispregio e di presunto scandalo politico contro un paese che, è sicuro, non ha più colpe di qualunque altro al mondo.
Ma perché La Stampa e Internazionale fanno finta di non sapere e non ricordano a Yoani che inferno è, rispetto a Cuba, il Sud del mondo?
Mi piacerebbe commentare questa vicenda con i colleghi de La Stampa e di Internazionale che, malgrado queste storie non esaltanti di truffe giornalistiche realizzate dai paesi più potenti per confondere e pilotare l’opinione pubblica, continuano a dare uno spazio fisso al cattivo umore della bloguera cubana, che denuncia, come fosse una prerogativa del suo paese, quel malessere, quelle frustrazioni del mondo moderno che oltretutto, ultimamente, sono più usuali nelle tanto sognate società dei consumi. Perché a Yoani sì e alle decine di giornalisti, perseguitati e assassinati ogni giorno in Messico, Colombia o Honduras no? Forse perché in politica sono allineati sugli interessi degli Stati uniti?
Ma, a parte tutto, la Sánchez lo sa in che continente vive? Quando denuncia la riprovevole corruzione del suo paese, conosce la situazione empia della violenza e del degrado appunto in Messico, in Colombia, in Honduras o in Guatemala, o il dramma di un pezzo di terra disperato come Haiti dove. in un anno, ci sono stati più di cinquemila morti per colera e dove gli unici medici che combattono l’epidemia, fin dal giorno successivo al terremoto, sono i suoi concittadini cubani o ragazzi haitiani laureati a l’Avana?
Da Latinoamerica n. 116 (n. 3/2011)