La Commissione condanna l’operato di Blair nell’aggressione all’Iraq
di Salvo Ardizzone
Il Regno Unito invase l’Iraq nel 2003 con una decisione precipitosa, presa senza aver vagliato alternative, sulla base d’informazioni di intelligence false e non verificate, e senza alcuna preparazione per il dopo guerra: è quanto ha dichiarato John Chilcot, presidente della “The Iraq Inquiry”, nel corso della conferenza stampa con cui ha presentato il tanto atteso rapporto sull’intervento della Gran Bretagna in Iraq.
In sette anni di lavori, la Commissione ha esaminato 150mila documenti e ascoltato oltre 100 testi, giungendo ad una conclusione che rappresenta una condanna politica senza appello per Tony Blair.
Nei dodici volumi del rapporto, emerge la completa inadeguatezza dei piani per l’attacco, della preparazione delle truppe britanniche coinvolte e soprattutto delle informazioni, secondo le quali Saddam Hussein era in possesso di armi di distruzione di massa; informazioni completamente false e che nessuno si preoccupò di vagliare.
Dall’inchiesta emerge chiaramente che l’intervento armato non era affatto l’unica alternativa, come a suo tempo sostenuto, ma sarebbe stata ampiamente possibile una soluzione politica attraverso ispezioni e monitoraggi, visto che l’Iraq non rappresentava alcuna minaccia per l’Occidente. Le stesse basi giuridiche per giustificare l’attacco sono evanescenti, ed il comportamento di Usa ed Inghilterra nel precipitare la guerra ha gravemente minato l’autorità del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
In realtà, secondo la Commissione, Blair si era impegnato a sostenere ad ogni costo l’allora presidente George Bush nella sua impresa, mostrandosi totalmente prono ai voleri di Washington; esattamente l’accusa che gli fu rivolta all’epoca dai pochi contestatori, fra cui l’attuale leader del Labour Corbyn.
Ma non è tutto; le disastrose conseguenze della guerra per l’Iraq e per l’intera regione vengono addebitate a Blair: per Chilcot era largamente prevedibile che il Paese conquistato sarebbe precipitato in un caos sanguinoso, come pure lo era la conseguente ascesa di al-Qaeda. Nemmeno l’avvertimento che la dissoluzione del regime baahtista e dell’Esercito avrebbe favorito lo sviluppo di formazioni terroristiche è stato in alcun modo ascoltato.
Patetica è stata la difesa di Blair, che si è detto rammaricato ed ha rinnovato le sue scuse, ma ha continuato a difendere il suo operato rivendicando di aver agito in buona fede e comunque negli interessi della Gran Bretagna.
Gruppi di manifestanti si sono radunati al Queen Elizabeth Center, dove si è svolta la conferenza di Chilcot, chiedendo che Blair sia incriminato per crimini di guerra; anche il leader laburista Jeremy Corbyn, a suo tempo strenuo oppositore dell’intervento, ha criticato l’operato di Blair ed ha invocato una maggiore indipendenza dagli Stati Uniti.
Non sono mancate però le voci di sostegno, almeno parziale, come quella del premier dimissionario Cameron; impossibile non vedere in esse quell’identità di vedute (e di interessi) con il blocco di potere che ha scatenato una guerra folle quanto sanguinosa per il proprio tornaconto.
Tornando al giudizio politico, il rapporto della Commissione ufficializza quello che chiunque non fosse in malafede sapeva già da sempre: l’invasione dell’Iraq è stata una sciagurata guerra d’aggressione condotta dagli Stati Uniti, con al seguito gli obbedienti scudieri inglesi, per obiettivi economici e di potere, senza alcuna parvenza di giustificazione né politica, né tanto meno legale. Un’impresa scellerata che è stata alla base della destabilizzazione di un Paese e che ha propiziato le condizioni per il tentativo di sconvolgere l’intera area, le cui conseguenza insanguinano ancora oggi l’intero Medio Oriente.