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Joint Strike Fighter, l’avidità del Sistema industriale Usa

Sul progetto Joint Strike Fighter (Jsf), quello dell’F-35, si sono versati fiumi d’inchiostro e sono infuriate le polemiche; Governi e militari, sostenitori a prescindere del più colossale e costoso progetto dell’aviazione militare mai avviato (nel tempo è preventivata una spesa complessiva di 1350 Mld di dollari), hanno continuato sin’ora a liquidare le critiche (a dire il vero adesso molto meno) trincerandosi dietro le mirabolanti prestazioni che l’aereo dovrebbe raggiungere quando sarà pronto. Un’attesa che continua ad allungarsi. Senza entrare in una diatriba tecnica assai poco comprensibile ai più, vogliamo fare il punto su un programma che già adesso sta condizionando pesantemente non solo le strategie Usa, ma anche quelle di gran parte dei suoi alleati/sudditi sparsi per il mondo.

Il Joint Strike Fighter nasce addirittura nel 1995 con l’obiettivo di sostituire gli otto principali velivoli in dotazione ad Usaf, Us Navy e Marines con un unico aereo in tre versioni, che avessero in comune almeno il 70% di componenti e utilizzassero le tecnologie più esasperate: l’F-35A per l’Aviazione, B per i Marines (capace di atterrare/decollare verticalmente o comunque in spazi assai brevi), C ottimizzato per essere usato dalle portaerei.

Nei sogni (e sottolineiamo nei sogni) dei suoi fautori, la piattaforma era destinata a dominare nel dogfight (combattimento aereo), nello strike (penetrazione e attacco di obiettivi dietro le linee nemiche) e nel Cas (Close Air Suport) supporto aereo sul campo di battaglia. Una colossale assurdità, per non dire una contraddizione, per chi mastichi appena un po’ di cose militari: si tratta di missioni completamente diverse che necessitano di caratteristiche anche strutturali spesso in contrasto. Se a questo si aggiunge la pretesa di chiedere le prestazioni più esasperate in ciascuna missione, ci si mette in un vicolo cieco malgrado l’incredibile ottimismo (leggi follia) con cui lo si è imboccato.

Risparmiamo le infinite vicissitudini e ritardi che hanno costellato tutto lo sviluppo del progetto, diciamo solo che le difficoltà si sono subito concentrate sulla cellula (la struttura dell’aereo) e soprattutto sul complesso di software che avrebbe dovuto governare le missioni di un aereo che è in pratica un computer volante.

Il Joint Strike Fighter nasce come un aereo stealth (invisibile ai radar), la caratteristica che è il suo punto di forza; ma per poterlo essere, oltre a leghe radar assorbenti ed a particolari forme del velivolo, è essenziale che le armi (bombe e missili) non le porti sotto le ali ma all’interno, perché altrimenti verrebbero rilevate, e questo ne limita il numero, con il risultato che l’aereo potrà pure essere invisibile e penetrare impunemente le difese del nemico, ma i bersagli che potrà colpire resteranno limitati. E d’accordo che sarà pure preciso, ma se si pretende (come si pretende) di annichilire gli avversari, il numero dei colpi che si possono sferrare conta eccome.

Inoltre, si tratta di una cellula delicata e pensare che possa stazionare a bassa quota sul campo di battaglia quando la raffica di una mitragliatrice basterebbe ad abbatterlo si è dimostrato semplicemente impossibile, come recentemente nella sostanza è stato costretto ad ammettere a denti stretti il gen. Goldfein, vice-capo di stato maggiore dell’Usaf.

Ma è il software il vero tallone d’Achille del programma: l’intera architettura è basata su una serie di pacchetti di implementazioni che progressivamente dovrebbero permettere all’aereo funzioni sempre più complete ed avanzate; tralasciando l’interminabile serie di malfunzionamenti, anomalie e ritardi, il sistema non è semplicemente pronto. Solo di recente il software Block 3.1 ha permesso una stabilità del sistema che gli consente di non andare in blocco ed essere costretti a spegnerlo e riavviarlo prima di circa tre missioni (!) a fronte di ogni missione come prima.

E dire che in un simile contesto, il corpo dei Marines è stato spinto dalle pressioni del Pentagono a dichiarare la Ioc (Capacità Iniziale Operativa) già da tempo. In pratica è stato dichiarato operativo un velivolo che può volare, ci mancherebbe, ma è ben lontano dal poter compiere le sue missioni in condizioni operative vere. E di certo non quelle per cui è stato selezionato.

Alla radice di quello che il senatore John McCain, presidente della Armed Services Committee del Senato, ha definito ufficialmente uno scandalo durante un’audizione, è il tentativo velleitario di creare un super aereo buono per tutto e, dinanzi alla realtà, i progettisti hanno dovuto mettere pezze e modificare il programma incalzati dal tempo.

Già, il tempo: il generale Christopher Bodgan, program manager dell’F-35, ha seraficamente replicato alla dichiarazione del senatore McCain dicendo che si tratta di un investimento a lungo termine che porterà i frutti entro trent’anni. Già. E nel frattempo?

Nel frattempo gli Usa hanno puntato tutto sull’F-35, destinando ad esso un fiume di risorse e rallentando o bloccando ogni altro programma: con quella che lo scorso gennaio il Segretario dell’Air Forces Debora James ha definito una delle più stupide decisioni degli ultimi decenni, hanno bloccato la produzione e l’ulteriore sviluppo dell’F-22 Raptor (unico caccia di 5^ generazione al momento esistente) a 187 esemplari di cui solo 123 attrezzati per il combattimento, a fronte dei 382 programmati. Inoltre hanno rifiutato di progettare un vero sostituto per il venerando A-10, il miglior velivolo da attacco al suolo, ed hanno rinviato ogni altro serio progetto di aggiornamento o sostituzione delle altre piattaforme.

Ma dopo una serie infinita di disillusioni ed aver visto erodere la gran parte dell’asserita superiorità tecnologica (soprattutto da Mosca, con Pechino a farsi sotto), Washington è stata costretta a correre ai ripari, mentre il programma Joint Strike Fighter continua a drenare un impressionante fiume di denaro che sta iniziando a mandare in bestia anche un Congresso pur abituato a faraonici stanziamenti.

Così la recente decisione di riesumare la linea di produzione dell’F-22 che, a partire dal 2020, dovrebbe cominciare a sfornare l’F-22B, implementato con tecnologie derivanti dall’F-35, salvo scontrarsi con ulteriori problemi di stabilità del software. Inoltre, a dare il via ad un programma A-X che sostituirà (ma quando?) l’A-10, mentre il Congresso ha congelato tutti i piani di pensionamento del vecchio ma efficiente velivolo, varando di corsa un progetto che lo aggiorni, allungandogli la vita operativa. Non solo: scottato dalle troppe promesse mancate, ha condizionato il ritiro dal servizio di ogni altro modello a test comparativi che dimostrino la superiorità del Joint Strike Fighter e, con quello che s’è visto fin’ora, ne passerà di tempo se mai avverrà.

Intanto il programma procede: a fine 2015 era pianificata la produzione di 1763 F-35 A per l’Aviazione, 340 F-35 B per i Marines che dovrebbero acquistare anche 80 F-35 C per operare dalle portaerei della Marina, e 260 F-35 C per l’Us Navy; un’enormità a cui s’aggiungono 612 velivoli per i Paesi partner del progetto e 750 previsti per i clienti Fms (Foreign Military Sales), cioè i Paesi beneficiari degli aiuti militari Usa come Israele.

Fin’ora il costo medio per aereo s’aggira intorno ai 110 ml di dollari (al netto di molte altre spese di sviluppo ed esercizio del progetto) e, malgrado la Lochheed-Martin (l’industria produttrice) abbia promesso che entro il 2019 il costo unitario s’abbatterà di 20 ml, sono in pochi a crederci.

Il fatto è che la promessa condivisione del 70% delle componenti fra le tre versioni, peraltro specificamente prevista all’inizio, è rimasta una chimera che s’è fermata a malapena al 20%: per fare solo un esempio delle differenze via via resesi necessarie, le ali del modello per la Marina sono del 40% più grandi di quelle degli altri modelli e così via.

Sia come sia, il Joint Strike Fighter è un business troppo grande, ed ha già ingoiato troppe montagne di denaro perché si pensi di poterlo fermare, ma in giro per il mondo sono ormai tanti i partner che hanno raffreddato gli entusiasmi sulla partecipazione al programma e stanno ridimensionando gli esemplari da acquisire.

Le pressioni di Washington per spingere (costringere) gli alleati/sudditi a partecipare (legandoli ulteriormente a sé e dividendo le spese), hanno a suo tempo imbarcato altri 8 Paesi a titolo diverso: il Regno Unito è partner di primo livello; Italia e Olanda lo sono di secondo; Australia, Canada, Danimarca, Turchia e Norvegia lo sono di terzo. A questi si aggiungono i Paesi che, senza partecipare allo sviluppo, acquistano l’F-35 attraverso i canali Fms: in primis Israele, poi Giappone e infine la Corea del Sud.

Tutti legati indissolubilmente al carro Usa; tutti impossibilitati a scelte strategiche differenziate sull’approvvigionamento di armamenti, ma che ora (a parte Israele che può contare su una lista della spesa “a gratis” praticamente discrezionale), dinanzi a costi crescenti, stanno riconsiderando le quantità di aerei che gli sono stati “imposti”. E questo soprattutto in considerazione di un mezzo che, promesso come un aereo tutto fare, s’è dimostrato un aereo d’attacco in profondità (e neanche tanto, visto che non può portare serbatoi supplementari pena la perdita della vantata caratteristica stealth) su obiettivi altamente “paganti”. Insomma, un costosissimo specialista.

E qui vogliamo aprire un inciso sull’Italia: che senso ha spendere tanto per un velivolo così specializzato per un Paese che ha enormi criticità nella Difesa: per citarne solo una, al momento dispone in tutto di solo una trentina (!) di carri pesanti operativi, neanche sufficienti ad 1 (!) battaglione corazzato a pieni organici.

Si possono fare tante considerazioni sui ritorni industriali garantiti dalla Faco di Cameri (la fabbrica, presso l’aeroporto di Cameri in Piemonte, dove vengono costruiti ed assemblati gli F-35 e dove si effettuerà la manutenzione avanzata di tutti i velivoli europei), ma di sicuro ci sono molti altri modi d’investire per fare occupazione e, comunque, per il Sistema Italia ci sarebbero state altre opzioni altamente paganti di sviluppo tecnologico e nel comparto e non solo (vedi collaborazioni con l’avanzato sistema industriale russo della Difesa). Ma questo, si sa, è semplicemente impensabile in un Paese che è di fatto sotto la tutela dello Zio Sam.

Per concludere il discorso sul Joint Strike Fighter, l’arroganza dei vertici del Pentagono e l’avidità insaziabile del Sistema industriale Usa hanno partorito un velleitario programma “monstre” dai costi colossali, destinato a non mantenere molte delle sue promesse ed a concretizzare quelle che potrà assai in là nel tempo. Nel frattempo, la focalizzazione su un unico progetto ha di fatto ridotto di molto il vantaggio tecnologico vantato nei confronti dei Paesi considerati competitor (Russia in testa, ma anche la Cina), rendendo necessaria una rincorsa per mantenere una superiorità giudicata irrinunciabile dall’imperialismo Usa. Il tutto si traduce in una quantità immensa di risorse bruciate sull’altare del potere, per la gioia dell’industria aeronautica e non solo.

In questo quadro risalta il balbettante ruolo degli alleati/sudditi, proni come sempre ai voleri (e agli interessi) di Washington, anche quando si tratta di colossali cantonate, esiziali per i loro più o meno gracili Sistemi Difesa.

di Salvo Ardizzone

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