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Israele: se la tua è una cultura della violenza, allora va boicottata!

pacbidi Redazione

Più di mille sociologi israeliani hanno fatto sapere che non parteciperanno alla prossima conferenza presso l’Università di Ariel, nella Cisgiordania occupata. La motivazione fornita dagli studiosi israeliani è che ‘si tratta di un ente ubicato all’esterno delle frontiere di Israele’, lasciando quindi intendere di essere consapevoli della natura abusiva dell’ateneo che si trova nel cuore della Palestina occupata da Israele.

A darne la notizia è il rappresentante della società israeliana di sociologia, Uri Ram, il quale aggiunge l’intenzione dei suoi colleghi a rescindere qualunque legame con l’Università di Ariel.

L’ultimo grande gesto di solidarietà proveniente da Israele e rivolto al movimento di boicottaggio accademico israeliano risaliva al 2011 quando 165 accademici israeliani firmarono una petizione e le motivazioni di allora erano identiche a quelle ribadite oggi.

Su cosa si fonda il boicottaggio di Israele se non sulla realtà dello Stato ebraico, sulle sue politiche che promuovono colonialismo e apartheid? In quest’ottica si deve leggere la campagna palestinese Bds ‘boicottaggio, disinvestimento e sanzioni’.

Dove collocare il boicottaggio culturale se non nella storia e nella attualità coloniale israeliana. Si possono narrare numerosi episodi di attacchi israeliani alla cultura e all’identità palestinese.

L’appello lanciato dalla Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (PACBI) si rivolge a coloro che operano nel settore della cultura (docenti, insegnanti, ricercatori ecc.), affinché boicottino in maniera estesa e concreta tutte le istituzioni accademiche e culturali di Israele contribuendo in tal modo alla lotta per la fine dell’occupazione, del colonialismo e del sistema d’apartheid israeliani.

Un fattore determinante dell’azione di boicottaggio culturale è dato dall’efficacia di smascherare la complicità delle istituzioni di cultura e accademiche di Israele con i crimini di cui si macchia lo Stato ebraico. Ecco in che modo quello culturale si trasforma in boicottaggio istituzionale, come dovrebbe essere propriamente chiamato.

bdsNon dimentichiamo la strumentalizzazione che Israele fa della propria cultura a servizio della sua propaganda internazionale. Sono trascorsi più di dieci anni da quando – senza inibizione alcuna – il ministro degli Esteri di Israele dell’epoca ‘incitava’ ad adottare nuovi strumenti con i quali presentare Israele al mondo’ e da lì a poco anche le rappresentanze diplomatiche all’estero avrebbero svolto un ruolo fondamentale nel giustificare, attraverso la divulgazione di brochure esplicative, una versione gentile di Israele. Non si sarebbe tentato nemmeno più censurare la brutalità dell’occupazione della Palestina, ma al contrario il muro d’apartheid veniva d’un tratto raccontato secondo le ‘ragioni sioniste’.

La Hasbara israeliana non si è mai fermata, nemmeno dopo le stragi di Gaza, da cui al contrario pare aver tratto soggetti ispiratori per renderla ancora più aggressiva, nell’accezione degli effetti che essa produce.

Questo articolo è in parte un estratto di The case for cultural boycott of Israel di Ben White

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