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Armi chimiche a Gioia Tauro: l’Italia sempre più dépendance a stelle e strisce

di Salvo Ardizzone

Ecco un’altra storiaccia all’italiana. Nei nostri porti transitano circa 90 ml di tonnellate all’anno; per controllare che fra tutta questa merce non ci siano sostanze radioattive, nel lontano 1996 fu emanata una legge, la 421, che stabiliva che approdi e valichi di frontiera avrebbero dovuto dotarsi di strumentazioni idonee.

Passano tre anni e nel 1999 vennero spesi 45 miliardi (allora c’era ancora la lira) per acquistare scanner, gli Rtm910t. Passano ancora gli anni e, finalmente, nel 2003 vengono collaudati, ma di metterli in funzione non se ne parla. Eppure il Ministero dell’Industria ha cacciato i soldi, il Ministero delle Finanze (attraverso le Dogane) ha messo a disposizione le aree, il Ministero degli interni ha messo a disposizione i Vigili del Fuoco.

Il fatto è che questi strumenti, fabbricati in Finlandia e importati in Italia dalla Sepa di Torino, “non funzionano quasi in nessun porto e quasi ogni giorno ci sono segnalazioni da tutta Italia che ne lamentano la mancata manutenzione” e dunque l’impossibilità di usarli, afferma Antonio Jiritano dell’Usb dei Vvff.

Di certo è questa la situazione al porto di Gioia Tauro che, come noto, sarà al centro della delicatissima operazione d’imbarco, sulla nave Usa Cape Ray, di 700 tonnellate di armi chimiche provenienti dalla Siria. E non solo; i nuclei Nbcr (Nucleare, batteriologico, chimico, radiologico) dei Vvff di Reggio Calabria e Catanzaro non sono affatto pronti, e, sempre secondo Jiritano, neppure l’equipaggiamento è in regola, con tute protettive scadute e strumentazioni in completo abbandono. Inoltre le Asl non hanno fatto alcun piano di emergenza congiunto e l’esercitazione del 28 febbraio è stata annullata, tanto che si parla di affidare la cosa ai nuclei Nbcr di Roma.

L’arrivo della nave era previsto per l’11 febbraio, ma di rinvio in rinvio, ancora nulla è stato approntato malgrado l’estrema delicatezza e pericolosità dell’operazione. Gli Americani, da parte loro, non sembrano granché preoccupati (ovvio, se accade qualcosa non è mica casa loro); la Cape Ray dovrebbe imbarcare gli agenti chimici in 48 ore e poi renderli inerti. Ciò che li impensierisce, invece, è che nei container ci possa essere dell’altro, così, per togliersi il pensiero, hanno approvato la legge: Tho ensure the security of maritime transportation in the United States, che in parole povere, attraverso l’iniziativa Mega Port, affida alla Dogana americana il controllo sulle navi degli States in porti ritenuti a rischio (come appunto Gioia Tauro): ci penseranno loro a controllare autonomamente anche i livelli di radioattività, come fossero a casa loro.

A parte quest’ennesima umiliazione, il fatto grave è che Gioia Tauro è un porto hub, dove approda e sbarca di tutto da tutto il mondo, e un simile livello di inefficienza è inammissibile. Né ci consola il fatto che il porto di La Spezia non sia messo meglio, come dice Rositano di Legambiente.

È veramente assurdo che in questo Paese, neppure dinanzi a rischi gravi, gravissimi, si riesca a dare un minimo segno d’efficienza e di responsabilità.

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