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Le contromosse di Putin all’attacco economico di Usa e Arabia Saudita

di Salvo Ardizzone

La Russia è sotto un violento attacco economico: gli Usa le muovono guerra sul versante finanziario, scatenando la speculazione finanziaria che ha già fatto crollare il rublo e la sua borsa, e spingendo una Ue asservita a sanzioni suicide; l’Arabia Saudita, seguendo propri disegni che collimano con gli interessi delle lobby che manovrano Washington, sta usando l’arma del petrolio per riaffermare la propria supremazia sul mercato e mettere in crisi avversari che non è riuscita a colpire in altro modo, fra gli altri proprio la Russia che tanto l’ha ostacolata in Medio Oriente (in Siria e fornendo appoggio all’Iran). Gli attacchi si saldano l’uno all’altro, indebolendo l’economia russa fortemente dipendente dalle esportazioni energetiche, e sono destinati a durare a lungo, nelle speranze di chi li conduce fino a sfiancare Mosca.

Putin è consapevole che l’intera società russa corre il rischio d’implodere, tornando ai tempi bui di Eltsin negli anni novanta, e ha messo in campo una strategia alternativa di lungo periodo, intessendo rapporti resi possibili da un mondo ormai multipolare.

Due sono gli assets su cui può puntare: da un canto gli armamenti prodotti da un’industria ormai risorta dallo sfacelo del secolo scorso, dall’altro la produzione di petrolio e gas; a supportarli c’è un apparato militare che ancora risente del collasso successivo all’implosione dell’Urss, ma in rapida ripresa, e riserve monetarie che, sia pur erose dalla guerra finanziaria in corso, rimangono pur sempre considerevoli (nell’ordine dei 4/500 Mld di $).

La fornitura di armi sufficientemente sofisticate, non rappresenta solo un buon affare, ma è da sempre uno strumento capace d’assicurare influenza e rapporti politici e commerciali. Putin lo sa molto bene e lo sta sfruttando sottoscrivendo un’infinità di contratti con Paesi africani, con l’Iran (rinsaldando i già ottimi rapporti) e anche con l’India (con cui sono molti i progetti di collaborazione).

Tuttavia, è in campo energetico che si gioca la partita più impellente: per Mosca è imperativo aprire nuovi flussi d’esportazione che la mettano al sicuro. In realtà, non intende affatto abbandonare il mercato europeo, sarebbe un reciproco suicidio; i circa 160 Gmc (miliardi di mc di gas) forniti alla Ue le sono vitali, come pure per i suoi clienti, che non avrebbero come sostituirli. Si tratta di creare altri canali non soggetti ai condizionamenti e alle pressioni che vengono da Washington; il fatto è che per costruirli ci vogliono anni perché un gasdotto o un oleodotto non s’improvvisa, e nel frattempo si deve resistere alla guerra finanziaria che tenta di distruggere il rublo e l’economia russa.

Alla luce di questo si scorge la rilevanza strategica, soprattutto per Mosca, degli accordi sottoscritti con Pechino: un flusso massiccio di gas e petrolio (addizionale a quello già destinato in Europa) prenderà la via della Cina e degli altri consumatori dell’Estremo Oriente, e pazienza se i prezzi strappati in una condizione di bisogno tendono al basso, occorrono nuovi mercati che, peraltro, vengono sottratti ad Australia, Qatar e agli Stati Uniti e alle sua Major.

Al contempo, la Banca Centrale Russa e quella di Pechino, ben felice di ostacolare le politiche di Washington nel quadro di una competizione globale che è ormai nei fatti, hanno sottoscritto dei contratti swap per scambiarsi direttamente le proprie valute senza l’intermediazione del dollaro. È un fatto assolutamente dirompente: in questo modo i tassi fra rublo e yuan rimangono bloccati, ma visto che lo yuan viene scambiato con le altre monete, compreso il dollaro, sulla base di un valore stabilito dalla Banca Centrale Cinese con oscillazioni minime (2%), il rublo si mette in pratica sotto un ombrello garantito dalle immense riserve monetarie di Pechino. Non solo: Mosca può così comprare yuan (ai tassi fissi previsti dai contratti), venderli per acquistare dollari (sostanzialmente ai tassi stabiliti dalla Banca Centrale Cinese) e scambiare questi ultimi con rubli al mercato libero, sostenendone il valore. Con questo giro, complicato ma efficace, grazie allo scudo di Pechino, la Banca Centrale Russa può far pagare un prezzo altissimo alla speculazione che scommettesse massicciamente sul deprezzamento del rublo.

Da ultimo, per quanto riguarda la Ue, che rimane comunque il suo primo mercato, il 1° dicembre Putin ha ufficialmente posto fine al progetto South Stream, affossato dalle pressioni Usa e dagli ostacoli posti da Bruxelles, ma al contempo ha lanciato un altro progetto alternativo e per la Russia più conveniente: un gasdotto che, passando per la Turchia (e portando nuovo gas in quel Paese), arrivi fino al confine greco. In questo modo scavalcherebbe il pantano ucraino e, in prospettiva, si sbarazzerebbe degli oneri per la rimessa in funzione del sistema di gasdotti di Kiev (quasi 20 Mld di $), scaricando i costi delle infrastrutture necessarie al nuovo canale d’approvvigionamento e della loro gestione sui Paesi europei.

La Ue non ha dove altro trovare il gas, dopo che si sono dimostrati una chimera sia lo shale Usa che quello proveniente da Polonia e Romania: la Libia ha notevoli riserve, ma nelle condizioni attuali è come se si trovassero sulla Luna; qualcuno ha suggerito di puntare sull’Algeria ma, come ha dimostrato Jonathan Stern sul Financial Times, è solo un sogno perché là le infrastrutture cadono a pezzi, inghiottite da incuria e corruzione, e la situazione della sicurezza è in drastico peggioramento in un Paese che, se pur ha schivato lo sconquasso delle “Primavere”, rimane una polveriera.

In questa situazione, chi è messa peggio è ancora una volta l’Italia perché, a differenza degli altri grandi mercati europei (Germania, Francia e Polonia), è l’unica che per il gas russo (piaccia o no, insostituibile) dipende totalmente dai gasdotti dell’Ucraina.

Tornando alle mosse di Putin, s’è mosso tempestivamente e con efficacia, anche se nei prossimi 2/3 anni il suo Popolo pagherà un prezzo alto per un’aggressione dissennata; ma pagherà anche l’Europa, per l’assoggettamento alla volontà di Washington. E, come al solito, più di tutti sarà l’Italia a pagarla.

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