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Islam e matrimoni imposti, parlano gli sciiti

L’Indygesto – Hossein Morelli, il segretario dell’Associazione “Imam Mahdi”, spiega i motivi per cui la corrente dell’Islam a cui appartiene non ha aderito alla fatwa. E fa chiarezza sui rapporti tra la religione e le subculture: il Corano predica la libertà, questi sono solo usi tribali. L’Islam occidentale? È una realtà delicata, che va tutelata e incoraggiata: è l’unico mezzo per una integrazione vera ed efficace.

Fatwa sì, fatwa no: la tragedia (che è tale qualunque ne sia il finale) di Saman Abbas ha scatenato una discussione piuttosto sofferta nell’Islam italiano. Da questa discussione è sortito almeno un risultato positivo: ora sappiamo più o meno tutti che la fatwa (alla lettera parere e, in senso indiretto, massima) non significa sentenza di condanna, come una certa vulgata mediatica ci ha abituato sin dai tempi della condanna (pericolosa) per blasfemia subita dallo scrittore indiano Salman Rushdie.

Semmai, è uno strumento giuridico delicato e importante nella vita dei mussulmani. E non è un caso che il dibattito abbia riguardato la fatwa con cui cento autorità religiose legate all’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane) hanno dichiarato che secondo il Corano e la Sunna il matrimonio non può essere imposto né combinato e che la volontà della donna è importante nella scelta del proprio compagno di vita.

Eppure solo una parte, sebbene maggioritaria, delle comunità sunnite ha aderito alla fatwa e la comunità sciita è risultata restia in blocco.

Spiegare quest’ultimo no è delicato soprattutto per un motivo: la famiglia della povera Saman è sciita, almeno nominalmente. Sulla sostanza della fede della famiglia Abbas molti mussulmani hanno sollevato più di un dubbio.

E li solleva anche un esponente di primo piano di questa corrente religiosa, che in Italia è minoritaria: «A quel che ci risulta, non erano praticanti». Lo afferma Hossein Morelli, un commercialista di Tivoli convertitosi alla fine dello scorso millennio e attualmente segretario dell’Associazione Imam Mahdi.

Quindi la religione non c’entra o c’entra molto poco, con la vicenda della povera Saman.

Lo ribadiscono le cronache che riportano l’operato degli inquirenti: in un’intercettazione, la madre di questa ragazza parla, cito testualmente, di «onore della famiglia» che sarebbe stato compromesso dal comportamento della figlia che ha rifiutato il matrimonio a cui era destinata. Un’espressione che si lega a una subcultura non necessariamente islamica: fino a non troppo tempo fa, vicende simili erano tipiche anche del nostro Sud Italia.

E allora come mai le comunità sciite non hanno aderito alla fatwa che smentisce il legame tra matrimoni imposti e Islam?

Chi ha deciso di preparare questa fatwa ha agito con un’intenzione più politica che giuridica o religiosa: ha voluto dare un segnale all’opinione pubblica e ai media. Tuttavia, ci sono due tipi di problemi. Il primo è tecnico: quali autorità l’hanno emanata? E, soprattutto, chi l’ha chiesta? Le fatawi sono pareri che si rilasciano su richiesta. Che, in questo caso, non mi pare ci sia stata. Il secondo è un problema politico: emettere una fatwa per ribadire un concetto già presente nel Corano è un segno di debolezza, un modo di chiedere scusa per colpe non nostre. Per quel che mi riguarda, siamo sempre stati chiari su questo punto ogni volta che sono esplose delle polemiche per casi di violenza sulle donne avvenute in famiglie o comunità mussulmane, perciò una fatwa è superflua.

Eppure le denunce di casi di violenza sulle donne in ambienti islamici si susseguono…

Il problema vero è che nessuno fa statistiche serie. Se si facessero, ci si accorgerebbe che le violenze contro le donne e i femminicidi sono in crescita soprattutto nella parte cristiana e laica della società. Non affermo questo con sottintesi e retropensieri, ma solo per chiarire un aspetto imprescindibile di questo problema gravissimo: i comportamenti violenti prescindono dalla cultura religiosa. La misoginia è un male che attecchisce soprattutto nelle subculture.

L’Islam può contrastare in qualche modo o, almeno, può mitigare questi usi?

Certo. Ma occorre un lavoro serio di approfondimento e divulgazione. Soprattutto, è importante selezionare a dovere le guide religiose: devono avere cultura e polso. L’Islam italiano affronta oggi gli stessi problemi che ha affrontato la Chiesa cattolica negli scorsi decenni, ma con molte più difficoltà: la Chiesa, infatti, ha accompagnato la crescita e la modernizzazione dell’Italia e di altri Paesi occidentali. Noi, invece, accogliamo immigrati che arrivano da noi nelle stesse condizioni in cui molti Italiani emigravano, fino alla seconda metà del secolo scorso: con livelli culturali minimi e forti radicamenti nelle subculture rurali di provenienza.

Secondo lei è essenzialmente un problema culturale?

Sì. Quella di un mondo islamico arretrato in blocco e avverso a ogni idea di progresso e libertà è in larghissima parte una costruzione mediatica.

Però è innegabile che, anche nei Paesi islamici più avanzati, la situazione dei diritti civili lascia non poco a desiderare. Pensiamo al caso dell’Iran.

Io dico che occorre molta attenzione e molta prudenza nell’operare questi paragoni. L’Iran è un caso di modernizzazione effettuata attraverso la religione e non contro di essa. Il livello dei diritti sociali è alto, la lotta all’analfabetismo, che nel vecchio sistema era elevato, è stata efficace e il particolare sistema di rappresentanza ha consentito alle minoranze (cristiane, zoroastriana e sunnita) di avere voce. Poi, come tutti i sistemi politici, anche quello iraniano ha i suoi difetti. Ma non mi pare che le sue performance ne facciano un sistema da buttar via.

E con la condizione femminile?

Se riduciamo tutto al chador, restiamo nel pregiudizio occidentalista. Se approfondiamo un po’ le statistiche, ci accorgiamo che il numero di donne che svolgono la professione di medico o ingegnere o, addirittura, hanno ruoli nell’esercito e nelle forze dell’ordine non è basso. Anzi, in rapporto alla popolazione, non ha nulla da invidiare all’Occidente. Al che, una domanda la faccio io: una donna che veste e vive secondo i dettami della propria religione è meno libera rispetto a una che segue i principi di mode che poco hanno a che fare con il rispetto e la dignità della persona? E, soprattutto, quello occidentale è l’unico canone di progresso possibile?

A merito dell’Iran va detto di essere stato un baluardo contro il radicalismo islamico…

Sì. Ma l’opposizione, anche militare, a certi sistemi nasce da questioni spirituali, etiche e geopolitiche, non da una presunta matrice indoeuropea dell’Islam sciita che si tradurrebbe in antiarabismo. Anche questo è un equivoco frequente da sfatare.

Ma anche in quell’area culturale non sono proprio rose e fiori.

Se allarghiamo un po’ lo sguardo, troviamo altre sorprese. Le guerrigliere curde che andavano alla carica contro i miliziani dell’Isis ascoltando i Rage Against The Machine ricordano non poco i marines che in Vietnam facevano altrettanto usando la musica dei Led Zeppelin o Jimi Hendrix per farsi coraggio… Il mondo è bello perché è vario e per accorgersi di questa varietà occorre saper guardare.

Torniamo al problema principale, che è l’Islam occidentale. Su chi grava il compito di guidare gli immigrati a un’integrazione corretta nei nostri sistemi?

Senz’altro sugli italiani convertiti come me. E poi sugli immigrati che si sono già integrati e sui loro figli, vari dei quali sono cittadini italiani a tutti gli effetti, hanno studiato in scuole e università italiana e assorbito la nostra cultura. Loro sono la prova che l’Islam è compatibile con l’Occidente. Certo, in questo compito non facile abbiamo bisogno che le istituzioni culturali italiane ci aiutino ad avviare un dialogo interreligioso corretto, da cui tutti potremo trarre un reciproco arricchimento.

Questo dialogo è possibile?

Direi che è una scelta quasi obbligata: il numero di islamici è destinato a crescere nelle società occidentali, perciò sarà necessario un processo di integrazione ben gestito, che educhi le persone provenienti da altre culture a rispettare quella del Paese ospite senza tuttavia snaturarle. Mi permetto di ricordare, al riguardo, che tutte le grandi civiltà, a partire dall’Impero romano, si sono costruite grazie alla loro grande capacità di metabolizzare le differenze. E ricordo anche che i momenti più luminosi del Medio Evo sono stati propiziati dalla coesistenza di mussulmani e cristiani: la Sicilia araba e normanna e l’esperienza di Federico II sono esempi alti e importanti. Perché non ispirarvisi anche oggi?

di Saverio Paletta

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