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Libia destabilizzata e ad un passo dalla guerra civile, facile preda degli “avvoltoi internazionali”

di Salvo Ardizzone

È ormai da maggio che in Libia si fronteggiano armi alla mano due coalizioni, in uno stillicidio di scontri sanguinosi che difficilmente attirano l’attenzione dei media, polarizzata sulle gesta del fantomatico “califfato”. 

Eppure all’Europa, e soprattutto all’Italia, ciò che accade a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste dovrebbe interessare tanto e almeno per tre ragioni; primo: piaccia o no, per noi (e per l’Europa) petrolio e gas libici sono della massima importanza, come in fondo hanno capito Londra e Parigi che hanno suscitato una guerra nel tentativo di impadronirsene, ed ora, come vedremo, vorrebbero riprovarci.

Secondo: uno Stato fallito sulle coste del Mediterraneo, con una guerra civile in procinto di scoppiare (e continuando così esploderà assai presto) e diverse potenze regionali pronte a intervenire per regolare i propri conti per procura (vedi Siria), segnerebbe la definitiva destabilizzazione dell’area, con riflessi pesanti anche sui Paesi vicini, con ciò che ne consegue in termini di sicurezza e di approvvigionamenti energetici.

Terzo: un evento simile scatenerebbe una mostruosa ondata di disperati, tale da fare impallidire tutto ciò che abbiamo visto sin’ora, gettandoci in un caos a cui, visti i precedenti, non sapremmo dare rimedio.

Per tornare alle coalizioni che si contendono il potere, una, “Dignità”, raggruppa elementi del vecchio esercito, le Milizie di Zintan e ha il recente appoggio dei “federalisti” della Cirenaica; con le elezioni farsa del 25 giugno le formazioni che l’appoggiano hanno ottenuto la maggioranza, esprimendo il Governo di al-Thinni a cui la comunità internazionale ha dato il riconoscimento; con la conquista di Tripoli da parte degli avversari, le sedi di Parlamento e Governo sono state spostate a Tobruk, controllata da forze amiche. Tuttavia, un gruppo di parlamentari eletti a giugno (una settantina), che fanno capo a formazioni vicine all’altra coalizione, si rifiuta di partecipare alle riunioni, delegittimando di fatto i lavori dell’Assemblea.

La seconda coalizione, “Alba”, riunisce le Milizie di Misurata e una galassia di milizie islamiste (molte vicine alla Fratellanza Musulmana) che ha interessi convergenti anche con i gruppi jihadisti come Ansar al-Sharia; le formazioni che le si ispirano hanno perso le elezioni del 25 giugno ma controllano ancora il vecchio Congresso Generale; dopo aver occupato Tripoli, Alba lo ha riconvocato facendo eleggere al-Hasi a capo d’un Governo di sua espressione. 

Durante i violenti combattimenti per la conquista della Capitale, quasi tutte le Ambasciate sono state chiuse e il personale evacuato precipitosamente; quella italiana è rimasta aperta insieme a quelle di Malta e Ungheria. È toccato al nostro ambasciatore, Buccino, svolgere un’abile e delicata opera di mediazione fra le parti, permettendo le trattative condotte dall’inviato speciale dell’Onu, lo spagnolo Leon. Nel condurre il negoziato, l’Italia, una volta tanto, s’è dimostrata all’altezza della situazione, riuscendo sia a non farsi coinvolgere dalle due fazioni, sia ad evitare l’opzione militare che più d’uno Stato già caldeggiava; la stessa Mogherini ha detto chiaro che il dialogo si fa anche con chi ha perso le elezioni (quelle del 25 giugno), vale a dire con i movimenti vicini alla Fratellanza Musulmana e ad Alba. Una posizione equidistante che in Libia è stata apprezzata.

Nel frattempo, però, gli altri Paesi europei scalpitano per tornare in gioco e ricavare un utile dal quel caos: Spagna, Regno Unito e Francia organizzano conferenze e designano inviati speciali sulla Libia; Parigi, addirittura, con l’eterna scusa del terrorismo che vi si potrebbe installare, chiede un intervento internazionale (in pratica una riedizione della sciagurata operazione di tre anni fa, all’origine di tutto questo sfascio).

Nell’ultima settimana di settembre si sono tenuti incontri importanti; all’Onu si sono riuniti una trentina di parlamentari eletti a giugno, compresa una rappresentanza di quelli che boicottano le riunioni, con l’obiettivo di trovare una sede neutrale per il Parlamento e definire regole minime per le decisioni più importanti. Quella della mediazione interna sarebbe la via più logica, ma sono in molti a soffiare sul fuoco.

A parte Francia e Inghilterra, a cui brucia ancora di non essere riuscite a mettere le mani sul petrolio e il gas libici nel 2011, molte potenze regionali premono per far scoppiare un’altra guerra per procura in stile siriano: Turchia e Qatar sostengono Alba (e i movimenti islamisti vicini alla Fratellanza Musulmana) volendo rifarsi dello smacco subito al Cairo; Emirati ed Egitto (con l’immancabile ombra dell’Arabia Saudita dietro), per le ragioni opposte, appoggiano Dignità e il governo di al-Thinni, come hanno già dimostrato con i raid aerei di fine agosto. E questo appoggio, unito a quello ventilato chiaramente da Francia e Inghilterra, ostacolano la mediazione perché inducono il Parlamento di Tobruk a sentirsi forte. 

Sarà ancora e sempre il terrorismo l’universale pretesto per giustificare l’ennesimo intervento armato. In proposito è illuminante il discorso pronunciato all’Onu dal Presidente del Parlamento libico riconosciuto, dove ha equiparato Alba a un nuovo Isis; e ancora, sempre al Palazzo di Vetro, nel documento conclusivo di una riunione sulla Libia si legge che i partecipanti riconoscono lo sforzo del Governo libico (di al-Thinni) contro gruppi terroristici e si dicono pronti a sostenerlo. È un via libera di principio all’intervento contro Alba.

L’Italia, che in Libia ha più interessi di tutti, dovrebbe agire per evitare una guerra civile che ci danneggerebbe più di chiunque altro; dovrebbe pretendere, nelle sedi diplomatiche e nei documenti ufficiali, che la legittimazione elettorale vada di pari passo con l’inclusione e la possibilità d’espressione assicurata a tutti gli eletti, anche a quelli che si rifanno ad Alba. Inoltre, la legittimità del Governo, per non essere una farsa, va dimostrata con i fatti: la lotta ai gruppi terroristici (che a Bengasi e Derna ci sono davvero) e al traffico di esseri umani ha bisogno di chi controlli in qualche modo il territorio, e Tobruk, per sua ammissione, controlla assai poco.

Al contempo, se ci sarà da ostacolare qualche Stato europeo (leggi Francia e Gran Bretagna) pronti a lanciare bombe e assecondare scellerate avventure quando c’è odore di petrolio, lo faccia, e subito. L’alternativa è trovarsi un inferno sulla porta di casa. Dovrebbe essere la prossima seria sfida europea del nostro Premier. Visti i gli attori, i precedenti e ciò che è in ballo per il Sistema Italia, la temiamo.

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