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L’avidità della finanza e il montare di nuove bolle speculative

di Salvo Ardizzone

Il mondo della finanza è avido, si sa, e spesso pure ottuso, perché, dinanzi alla prospettiva del guadagno, non esita a ripetere comportamenti che già l’hanno portato alla rovina.
È ciò che sta accadendo adesso: l’enorme liquidità che gli Istituti Centrali hanno pompato, svenandosi per salvare banche e strutture finanziarie dalle crisi (quella successiva al tracollo di Lehman Brothers prima e quella dei debiti sovrani dopo), invece di arrivare a un’economia reale boccheggiante (dov’è giunta in piccola, piccolissima parte) è stata impiegata in attività finanziarie che, a poco a poco, hanno finito per gonfiare altre bolle speculative.
Sono almeno tre che più impensieriscono: per cominciare quella del mattone, che poi è la stessa che, con la crisi del mercato immobiliare e dei mutui subprime, nel 2007 diede l’avvio a tutto. Cinque sono le situazioni più a rischio secondo i dati del Fmi: Cina, dove il prezzo delle abitazioni continua a correre da tempo, con un +17,5% solo nel 1° trimestre del 2014; il Brasile, con un +12,1; gli Usa, che ci riprovano ancora dopo solo sette anni, con un +10,3; e poi Gran Bretagna, +9,1 e Germania, con un più modesto +5,8, ma che secondo Christine Lagarde, per lo scenario macroeconomico, meritano la massima vigilanza da parte di Bce e Bank of England.

La seconda bolla che monta è quella di Wall Street, con l’indice S&P 500 che continua a volare, toccando a metà giugno il nuovo massimo storico a 1.959 punti (e con previsioni addirittura di 2.250 punti a fine anno) senza che il settore bancario e quello industriale si siano ancora ripresi dalla recessione, e lo stesso per i tecnologici, con Amazon, Apple e Google a spingere alle stelle il comparto senza che ci siano riscontri nei bilanci. È una corsa che si autoalimenta, indipendentemente dagli andamenti dell’economia reale, che interviene solo provocando aggiustamenti subito superati da nuove fiammate speculative.

La terza bolla che s’indovina è quella dei social media; questo settore della borsa e il suo indice (Global X social media index) sono nati a novembre del 2011 e scontano la stessa irresponsabile euforia che caratterizzò i titoli tecnologici all’inizio degli anni duemila. Le quotazioni di Twitter, Facebook, Linkedin, Pandora, Groupon e Zynga raggiungono quotazioni stratosferiche senza che nulla e niente le giustifichi, se non semplice moda o speculazione, che va e viene bruciando i soldi di chi ci punta sopra. Per fare un esempio dei tanti, Twitter, collocata sul mercato nel novembre scorso a 26 dollari, a fine dicembre viaggiava sui 70 con un incremento del 285%, per crollare nel 2014 della metà; insomma, come a giocare a Monopoli, solo che qui i soldi sono veri, o, almeno, dovrebbero esserlo, salvo le solite furbate delle strutture finanziarie, che trovano modo di scaricare su altri i propri errori.

Queste bolle, nate come detto dalla smodata avidità delle strutture finanziarie, hanno comunque una comune matrice: il programma lanciato anni fa dalla Fed per il riacquisto di titoli del Tesoro Federale Usa e dei titoli garantiti dai mutui (Mbs); in questi pochi anni la Fed ne ha acquistati per 3.400 mld di $, passando dai 926 mld di asset detenuti al 10 settembre del 2008 ai 4.341 dell’11 giugno 2014.
Questo gigantesco ombrello protettivo sotto cui porre ogni cosa, da un canto ha spinto gli investitori a riavventurarsi in operazioni sull’immobiliare più o meno ponderate o avventate, dall’altro, visto che i rendimenti sono comunque calati dato che i tassi sono prossimi allo zero, li ha portati a impieghi in ambiti diversi. Dai tempi della crisi nera, quelli delle immagini dei dipendenti della Lehman con gli scatoloni in mano, non è cambiato praticamente nulla; le attività sono state solo trasferite.

Ma non è solo ottusità quella che spinge banche e investitori su strade pericolose, quanto la consapevolezza che, al dunque, come già accaduto pochi anni fa, Governi e Banche Centrali torneranno a svenarsi per accollarsi i costi delle loro dissennate speculazioni, scaricandone il peso sui loro Sistemi Paese. Da allora, infatti, è stato fatto poco per limitare le scorribande di questi avvoltoi, dando regole serie alla finanza internazionale (in Europa, vedi ad esempio la strenua battaglia di Cameron in difesa della City e quella della Merkel per i suoi “campioni nazionali”).
Da quanto detto una notazione magari scomoda: quella di regolamentare la finanza sarebbe una vera battaglia per lo sviluppo, ed è davvero singolare trovarsi accanto soggetti come Draghi invece che altri che ci dovrebbero stare a pieno titolo, persi dietro proteste banali e ininfluenti, di certo assai più comode per chi tiene in mano le leve della speculazione internazionale, quella che ingrassa sulla pelle di Popoli e Nazioni.

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