In un’Europa divisa e in crisi scoppia la guerra delle nomine
Bruxelles: tutto da rifare; eletto il Presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, dopo estenuanti trattative in cui s’è promesso tutto e il contrario di tutto, le nomine dei Commissari restano in alto mare e sono state rinviate a fine agosto.
Quello che può sembrare il risultato di riti bizantini, in un gioco di veti e contro veti, ha però motivazioni assai più profonde; in questo momento storico, sulla Ue si scaricano le fortissime tensioni di almeno due faglie di frattura principali: da un canto quella che separa la Germania, e i pochi Stati del Nord che le restano accanto nella sua interpretazione d’egemonia economica sul Continente; dall’altro quella, altrettanto insidiosa, lasciata come frutto velenoso dalla crisi ucraina in particolare, e dai rapporti con Usa e Russia in generale.
In fondo entrambe hanno radici lontane, nel crollo del Muro, la conseguente dissoluzione dell’Urss e la riunificazione d’una Germania, divenuta col tempo sempre più potente e ingombrante in un’Europa fatta di Stati troppo deboli per farle da contrappeso.
Il peccato originale della Ue, è stata la scelta degli anni ’80, quando, invece di procedere sulla difficile ma assai più solida via dell’integrazione politica, s’è preferito correre avanti su quella dell’integrazione economica, lasciando così aperto un interrogativo colossale se fosse da imboccare la strada della Federazione o della Confederazione di Stati, e su quanta e quale sovranità i singoli Stati Nazione dovessero cedere all’Europa; ciò che è venuto dopo è stata la costruzione di un’enorme impalcatura amministrativa fondata su parole retoriche che non avevano alcuna sostanza politica, rendendo l’Europa (potenziale colosso economico) un ridicolo nano politico. Non solo; le cessioni di sovranità in campo economico e amministrativo, non sono avvenute in un ambito di condivisione politica, ma sono state frutto di equilibri e trattative più o meno sotto banco, in cui gli interessi dei Popoli nel loro insieme sono stati tenuti fuori, mentre lobby e centri di potere dirigevano le danze.
In questo quadro è stata la Germania a salire in cattedra, prima in tandem con la Francia, poi, acquisita l’autorità del crescente peso economico, da sola, con il breve codazzo dei suoi scudieri del Nord (vedi Finlandia). Di qui la frattura profonda con i Sistemi Paese mediterranei, che hanno scontato e scontano sulla propria pelle un approccio devastante alle proprie economie, certo, in molte parti da riformare, ma di sicuro non secondo una ricetta che le distrugge.
A questa crescente faglia di tensione, fra Sistemi Paese diversi e in nessun modo mediata da una reale condivisione di obiettivi politici comuni, se ne aggiunge un’altra: quella dei rapporti con il vicino dell’Est, la Russia.
Gli Stati che sono emersi dalla dissoluzione dell’Urss, e che hanno aderito progressivamente alla Ue, hanno inteso (chi più, chi meno) definire una politica prima di contenimento, ma poi di aperta contrapposizione, alla Russia; l’hanno articolata attraverso diverse intese come il Gruppo di Visegrad (fra Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) o il Partenariato Europeo (lanciato ancora dalla Polonia con Svezia e Paesi Baltici), finalizzate ad ancorare i territori fra Baltico e Mar Nero (l’antico Intermarium) all’Europa, staccandoli dall’influenza russa. Su questi s’è inserito il gioco della Germania, che vede quegli spazi come un naturale sbocco alla propria influenza ed egemonia; i tedeschi hanno ormai storici rapporti strategici con Mosca, ma ora, in virtù dell’accresciuto peso, intendono rinegoziarli da posizioni di forza a prescindere dagli interessi e dall’agenda dei patners europei.
Alle spalle di queste motivazioni si muove Londra, in conto proprio, secondo l’antica politica d’osteggiare la nascita d’una potenza egemone sul Continente (ancora e sempre la Germania), ma ancor di più in conto di Washington, che mira a ostacolare la saldatura degli interessi europei a quelli russi, evitando la nascita d’un blocco economico (e di conseguenza politico) da cui essa sarebbe esclusa.
Di qui la guerra al gasdotto South Stream, che porterebbe altri 68 Gmc (mld di metri cubi di gas all’anno) russi nel cuore dell’Europa, offrendo l’alternativa (dubbia quanto interessata) dello shale gas americano. Di qui il boicottaggio del blocco dei Paesi dell’Est a qualunque iniziativa di distensione nella crisi ucraina in particolare, e nei rapporti con Mosca in generale.
In questo scontro frontale d’interessi opposti, l’Europa, che una posizione politica sua non ha e non può neppure imbastirla, esce paralizzata da un confronto che la vede totalmente passiva. La nomina di Juncker e l’impasse su quelle dei Commissari, in testa quella della Mogherini come Alto Rappresentante per le Politiche Estere e la Sicurezza (vista da molti come paladina d’una intesa con Mosca), e quella del “falco” rigorista finlandese Katainen agli Affari Economici e Monetari, sono figlie di questo gioco a incastri, che non può riuscire a contentare tutti.
La nomina d’un Alto Rappresentante che non rappresenti nulla, ma sia una figura sbiadita e inconcludente come ha interpretato quel ruolo Catherine Ashton da un canto, e la scelta d’un arcigno guardiano dell’ortodossia rigorista cara a Berlino dall’altro, andrebbero incontro ai blocchi di potere saldati intorno a Germania, Paesi dell’Est e Usa, ma i morsi della crisi hanno costretto a una sveglia, almeno parziale, diverse Nazioni.
Lo scontro è spostato a fine agosto, ma, chiunque sia eletto, restano sul tavolo le ragioni di contrapposizione che sono squisitamente politiche; finché non saranno affrontate (e viste le premesse ne dubitiamo assai), al di là d’inconcludenti mediazioni, l’Europa è e rimarrà un colosso di creta, in balia dei tradizionali gruppi di potere, con buona pace degli interessi dei Popoli che attendono d’essere governati.