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In Svizzera cade il segreto bancario,ma in Italia continua a regnare il malaffare

di Salvo Ardizzone

Il segreto bancario per la Svizzera è stato quasi una religione, e sulla “discrezione” delle proprie banche ha costruito il proprio benessere, divenendo il paradiso fiscale per eccellenza dei capitali opachi o del tutto neri. Era stato introdotto negli anni ’30, per opporlo alle richieste della Germania hitleriana; dopo aver resistito per molti decenni all’assalto di polizie e procuratori di tutto il mondo, ora pare sia finita.

Il 6 maggio, a Parigi, in occasione dell’Interministeriale Ocse (Organizzazione Cooperazione Sviluppo Economico), è stato firmato un accordo fra una quarantina di Paesi fra cui la Svizzera; sono tutti e 34 gli appartenenti all’Organizzazione, più diversi altri quali Cina e Brasile, ma anche Singapore e Costa Rica, celebri paradisi fiscali. E molti altri stanno per aderire, per evitare d’essere inseriti nella lista nera che l’Ocse stilerà a fine anno e che comporterà pesanti sanzioni.

In parole povere, ed evitando esasperanti tecnicismi, i Paesi s’impegnano a scambiarsi automaticamente tutte le informazioni su correntisti e depositi, in base ad accordi stipulati fra i contraenti. Cadono così le estenuanti e volutamente lunghissime procedure legali, che inquirenti e magistrature di tutto il mondo erano costrette ad intraprendere con scarsissimo successo. Certo, la data di efficacia pratica dell’accordo non è stabilita con precisione, occorreranno almeno un paio di anni, ma che tanti Paesi, e tutti i Big, l’abbiano sottoscritto insieme a molti dei più famosi paradisi fiscali è un passo avanti colossale.

Lo è anche e soprattutto per l’Italia: si calcola che in Svizzera ci siano fra i 180 e i 200 mld di € di capitali italiani fuggiti lì. Stime del genere sono da prendere con molta prudenza, ma sono comunque cifre immense. Tuttavia, per una lotta vera a frode fiscale, evasione e riciclaggio di denaro sporco, al nostro Paese manca uno strumento basilare, diremmo ovvio, che è presente in tutti gli altri Stati: il reato di auto riciclaggio.

In parole semplici: se il corrotto, il mafioso, l’evasore, prende il denaro frutto del proprio comportamento illecito e lo consegna a un professionista compiacente perché lo investa, ecco, quel professionista è imputabile per riciclaggio. Ma se a investire il denaro frutto delle proprie malefatte è direttamente l’evasore, il mazzettista o lo ndranghetista, ebbene, per folle che possa sembrare, non è reato. Lo sarà l’azione che ha prodotto il guadagno illecito, ma non l’investimento, così chi ha fatto una gran bella frode fiscale, con quei soldi può tranquillamente comprarsi la villa.

Quanto questo limiti e renda frustrante il lavoro degli inquirenti è evidente; complica immensamente, e fino a rasentare il grottesco, la repressione di quei reati. È stato detto infinite volte, ma da questo orecchio i nostri legislatori non sembrano sentirci: gli interessi sono enormi, e questa sarebbe un’arma micidiale contro chi ingrassa impunemente alle spalle degli altri. Di disegni di legge ne sono stati presentati tanti, ma d’affrontare il problema seriamente, come del resto si fa ovunque, non se ne parla se non con dichiarazioni prive di seguito.

Se qualcuno volesse puntare al cuore del malaffare, piuttosto che limitare l’attenzione alle infinite porcheriole che ci circondano (che sono spregevoli, certo, ma non sono “il” problema), dovrebbe mirare al bersaglio grosso. A questo per cominciare. Ma già. Il nostro non è un Paese normale.

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