Primo Piano

In Sicilia si pensava di aver toccato il fondo

di Mauro Indelicato

In Sicilia, da alcuni decenni a questa parte, sembra diventato quasi fisiologicamente impossibile abituarsi al peggio; da Palermo a Catania, da Trapani a Messina, durante le stancanti e noiose campagne elettorali, nelle piazze e nei bar la classica frase è la seguente: “U prossimu ca veni, sarà sicuramente megghiu di quello di prima”. Guardando alla storia recente sicula, dal 2001 in poi, da quando cioè vige anche in terra di Trinacria un sistema di elezione diretta del presidente della Regione, ogni capo di governo siciliano è sembrato sempre il male assoluto durante il mandato, mentre viene poi sistematicamente “rimpianto” (si fa per dire) successivamente.

Dal 2001 al 2008, la Sicilia ha vissuto la stagione di “don Totò” Cuffaro o “Totò vasa vasa” (in siciliano, “vasa” sta a significare “bacia”); Cuffaro era il classico frutto della classe politica post Dc sull’isola, partendo negli anni ’80 sotto la protezione di un altro “don”, don Lillo Mannino, ex ministro dei trasporti in uno dei governi del pentapartito pre–tangentopoli, e via via poi cresciuto cavalcando spesso al limite delle due coalizioni del presunto bipolarismo italico, essendo stato assessore regionale in una giunta di centro–sinistra, guidata da Angelo Capodicasa, uno dei tanti politici siciliani dimenticati nel parcheggio di Montecitorio da circa 15 anni, prima di guidare una giunta della Casa delle Libertà, la coalizione che in quello stesso 2001 fece trionfare Berlusconi alle nazionali.

Per molti Cuffaro è stato un amico, per altri un nemico, ha monopolizzato la scena politica dell’isola per sette lunghi anni e forse per questo si è beccato la condanna ad altrettanti anni di galera per favoreggiamento alla mafia; nei giorni della sentenza, a Palermo si gridava alla “decuffarizzazione” della Sicilia, sbandierata anche da gente che con Totò vasa vasa ha avuto importanti avanzamenti di carriera politica e non solo. Cuffaro era un politico scaltro, emblema dello squallore di una classe politica che ogni giorno di più avvelena la Sicilia con il clientelismo e con la strategia delle amicizie, ma il politico raffadalese da più parti oggi viene rimpianto per via della stabilità di governo che, nel bene e nel male, ha dato all’isola; si sapeva insomma, chi era a favore o chi era contrario ad una determinata cosa, senza mettere sul campo particolari confusioni.

Ma la storia registra come nel maggio 2008 Raffaele Lombardo veniva visto con più favore rispetto a Cuffaro, sia per la enorme percentuale di consensi alle votazioni (65%), sia per la fama di “amministratore di lungo corso” che si era acquisito grazie alla guida pluriennale della provincia di Catania. Lombardo è stato a lungo quasi un delfino di Cuffaro, la scuola politica è quella centrista, ma ad un certo punto decide di “mettersi in proprio”, tirando fuori dal cilindro nel 2005 quella “furbata” da genio del male corrispondente all’autonomismo; in poche parole, vedendo i successi dei vari partiti regionali al nord e pensando soprattutto che l’autonomismo non viene percepito né di destra e né di sinistra e che quindi eventuali (e poi puntualmente verificatisi) ribaltoni di maggioranza non destavano tanto clamore, decide di buttarsi su questa tematica e fonda il Movimento per le Autonomie.

Da quell’anno, ex socialisti, ex democristiani, ex centristi, ex repubblicani e così via, diventarono improvvisamente autonomisti, fautori della “fiscalità di vantaggio” e “nemici” di Roma. Una furbata che, nel male, è davvero geniale, c’è da riconoscerlo; politicamente però, Lombardo non è Cuffaro: fa fuori diversi uomini vicini agli altri partiti, rompe con la maggioranza che lo aveva sostenuto e crea un’instabilità che gli farà partorire qualcosa come 5 giunte in 4 anni, fino alle dimissioni anticipate dello scorso ottobre. A Palermo, strano a dirsi, si rimpiangeva Cuffaro e si inneggiava ad un presidente che, come ad inizio articolo, sarebbe stato comunque migliore. Adesso però, a meno di un anno dal suo insediamento, Rosario Crocetta è già riuscito nell’impresa di far rimpiangere pure il bel Raffaele, mai una volta apparso con i capelli fuori posto, che nel frattempo ha piazzato il figlio all’Ars prima di essere clamorosamente escluso alle nazionali grazie all’1% del suo Mpa.

Come mai questa luna di miele tra Crocetta e l’opinione pubblica è già terminata? Partiamo dall’esaminare il personaggio Crocetta: sindaco di Gela con Rifondazione Comunista, fautore di numerose battaglie civiche in una città stretta nella morsa dell’illegalità, da primo cittadino sale alla ribalta nazionale per aver licenziato la moglie di Emmanuello, storico e fino ad allora latitante boss della “stidda” gelese, dal comune. Da allora, l’isolato sinnacheddu dell’isolata città gelese, diventa invece una sorta di simbolo nella svolta amministrativa siciliana; forse è lì che Crocetta inizia a gustare una gran carriera politica o forse, più semplicemente, la testa agli scranni più alti di Palermo l’ha sempre avuta. Fatto sta che da ora in poi, Crocetta fa delle sue lotte un vero e proprio marketing politico; la sua strategia si evidenzia molto bene nel 2009, quando rinuncia alla poltrona di primo cittadino ed al posto di dirigente di un piccolo partito di sinistra, per passare al Pd e concorrere per gli scranni di Bruxelles.

Inizia a diventare evidente insomma che Crocetta sceglie la carriera politica all’amministrazione della cosa pubblica dei suoi concittadini; ma oramai, con l’appellativo di personaggio antimafia del decennio in tasca, nessuno si accorge di questi strani movimenti. A Rosario Crocetta si inizia a perdonare tutto, anzi adesso chi lo attacca è sicuramente un complice della mafia; l’antimafia quindi, per Crocetta inizia ad essere uno scudo, una sorta di schermo dietro il quale nascondere le proprie aspirazioni politiche. Alimenta tutto ciò, scrivendo anche un libro sulla sua storia, molto simili alle “lezioni di libertà” del presidente georgiano Saakashvili tenute in giro per l’Europa per diffondere la sua noma di paladino della democrazia, mentre nel suo Paese però la Polizia reprimeva diverse manifestazioni.

E così, forte del suo impegno antimafia e forte della nomèa di paladino dei diritti, Rosario Crocetta nel settembre scorso lancia la sua “rivoluzione” che, stando al suo slogan, “è già iniziata” ed appoggiata da tutti i siciliani contro la mafia. Peccato però, che la sua elezione in realtà è dovuta al gioco di ricatti tutto interno al centro destra, nella quale Gianfranco Miccichè avanza la propria candidatura per evitare di far vincere Musumeci, dando strada libera di fatto all’ex Sindaco di Gela, proclamato grazie al 33% dei consensi acciuffati tra il 47% dei cittadini andati al voto. In qualche modo, chi ha favorito la sconfitta di Musumeci, doveva esser premiato; così, nonostante il dietrofront di Miccichè, che passa nuovamente con il Pdl e diventa sottosegretario nell’attuale governo Letta, guarda caso Crocetta già a Natale si ritrova con la maggioranza all’Ars, nonostante una partenza che vedeva il proprio governo nettamente in minoranza sugli scranni del parlamento siciliano; tra movimenti sorti nel giro di pochi giorni, tra “voci siciliane” e “megafoni per cittadini”, Crocetta riesce ad avere 48 deputati su 90, più i 15 grillini che inizialmente erano vicini al presidente sulle prime iniziative, quali la revoca delle autorizzazioni per il Muos.

Ma al di là dei movimenti parlamentari in seno a palazzo D’Orleans, la sede dell’Assemblea Regionale Siciliana, per chi non lo sapesse, Rosario Crocetta ha inaugurato una pericolosa stagione del “con me o contro di me”, che nel suo gergo viene tradotto nella seguente maniera: “Chi non sta con me, è contro l’antimafia”. Così, sono arrivate le prime frasi che sanno di intimidazione per quella stampa siciliana che non si ritrova nelle sue posizioni: “Adesso basta ironie su chi come me combatte la mafia – ha affermato in un inquietante discorso tenuto alcuni giorni fa – qui facciamo cose serie, inizierò a querelare un blog al giorno, perché certi sfottò mi fanno riflettere da che parte stanno alcuni giornalisti”.

Un altro tassello dunque, nella saga della stagione nella quale il presidente siciliano utilizza l’antimafia per usare parole dure contro chi non è del suo stesso avviso; schermo dell’antimafia che, giusto per citare un altro esempio, ha impedito alla maggioranza dell’opinione pubblica di indignarsi quando l’ex sindaco gelese ha piazzato come assessore la propria segretaria personale, un gesto che qualche anno fa, fosse stato compiuto da Cuffaro o Lombardo, avrebbe certamente fatto gridare allo scandalo. Sul Muos poi, Crocetta ne ha fatte di tutti i colori: ha promesso lo stop ai lavori in campagna elettorale, poi ha revocato in effetti le autorizzazioni, ma proprio il giorno prima della grande manifestazione di Niscemi del 30 marzo; poi, puntualmente, a 24 ore dalla pronuncia del Cga sul ricorso del Ministero della Difesa, arriva la famosa “revoca della revoca”. Ma non è finita qui: ecco che il presidente professionista dell’antimafia, tira ancora una volta fuori dal taschino l’argomento e lo getta sulle pacifiche proteste dello scorso 9 agosto: “C’erano infiltrazioni mafiose dentro il corteo” ha affermato in una nota stampa diffusa dalla Regione, ma scritta dal suo addetto stampa personale che, a quanto risulta, improvvisamente e senza incarichi formali svolge adesso il proprio servizio anche per l’ente.

Questa è la situazione in Sicilia: un’isola non più governata, alla mercé delle decisioni personali di un personaggio che, sotto lo scudo dell’antimafia, fa e disfa a proprio piacimento e non gradisce commenti negativi al proprio operato, prendendo per mafioso chiunque non stia dalla sua parte. Crocetta dunque è figlio di una schiera di siciliani, politici ma anche imprenditori, che dalla strage di Capaci in poi, hanno fatto partire il business dell’antimafia, da cui lucrare tanto politicamente, quanto economicamente. La Sicilia, nelle sue campagne No Muos, grida al mondo anche il suo disprezzo verso una classe politica del genere, vuole far capire al resto del pianeta che in terra di Trinacria anche una nobile causa, come quella antimafia, può diventare occasione per alimentare ciò che di peggio la mentalità mafiosa può offrire. La Sicilia, con il “metodo Crocetta” rischia una gigantesca paralisi, tanto economica, quanto sociale e culturale.

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