Cronaca

Immigrazione massiva e impatto ambientale

di Cinzia Palmacci

Secondo una stima dell’Oim, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, entro il 2050 i migranti per ragioni climatiche saranno circa 200 milioni: pari alla popolazione di Francia, Germania e Regno Unito.

Negli ultimi sei anni, secondo l’Internal Displacement Monitoring Center, 157 milioni di persone sono migrate a causa di eventi metereologici. Deforestazione, desertificazione, riduzione dell’acqua, aumento del livello del mare, salinazione delle terre agricole, tempeste, uragani ed inondazioni causate dal cambiamento climatico, hanno conseguenze dirette e devastanti in particolare su quei Paesi e categorie sociali la cui sussistenza dipende esclusivamente dalle risorse ambientali. Sono queste dunque le prime vittime del cambiamento climatico, nonostante siano allo stesso tempo le parti meno responsabili di emissioni di gas ad effetto serra. In secondo luogo, come denunciato da Cespi, Focsiv e Wwf, il cambiamento climatico sta “portando all’intensificazione della competizione tra popolazioni, Stati e imprese per il controllo e l’utilizzo delle risorse naturali che potrebbe causare conflitti e quindi provocare migrazioni forzate”.

Innegabile è la connessione tra l’attuale modello produttivo, i cambiamenti climatici e le migrazioni. Per queste ragioni è essenziale che venga rinforzata la resilienza delle popolazioni maggiormente esposte e che siano prese delle misure a livello internazionale volte ad invertire l’attuale tendenza. Si auspicano dunque provvedimenti condivisi, immediati e coercitivi. Quest’ultima, caratteristica non prevista dagli accordi presi in occasione delle Cop precedenti, sembra rappresentare attualmente un punto d’incontro tra i principali leader mondiali responsabili del problema. Il presidente americano Obama, ma anche Putin, Merkel, Hollande e Renzi hanno infatti messo in rilievo la necessità dell’introduzione di una coercizione giuridica riguardo le disposizioni prese. Inoltre, come sottolineato dall’Oim, è auspicabile che la comunità internazionale si impegni a riconoscere e tutelare la categoria di persone costrette a migrare per cause ambientali. In più occasioni è stata avanzata la proposta dell’estensione dello status di rifugiato ai migranti per cause ambientali affinché questi ultimi possano essere tutelati dal Diritto Internazionale.
Tuttavia, le difficoltà legate alla definizione giuridica del termine, una certa riluttanza da parte dei Paesi firmatari della Convenzione di Ginevra e Unhcr stremati da una delle più grandi emergenze umanitarie, rendono questa prospettiva ancora lontana dalla realtà.

Il manuale dell’Unhcr sull’impatto ambientale dei rifugiati

L’interesse dell’Unhcr per le questioni ambientali risale almeno alla fine degli anni ’80 con l’avvio della pubblicazione di una serie di manuali che toccavano tematiche settoriali in qualche modo correlate all’ambiente. Nel 1993 l’Unhcr creava la Environment Unit e nel 1996 pubblicava le linee guida ambientali. Il manuale di fatto rende visibile l’adozione dell’attenzione ambientale nelle attività svolte dall’Unhcr in quanto l’ambiente rappresenta una questione trasversale ai diversi i settori e alle diverse fasi dell’emergenza. Il manuale nasceva da alcune constatazioni operative ricavate dalle esperienze dell’Unhcr:
– gli impatti ambientali dei rifugiati sono negativi sia per i rifugiati sia per la popolazione locale;
– le attività svolte dai rifugiati quali raccolta della legna, caccia, raccolta dell’acqua, causano seri danni agli ecosistemi portando in alcuni casi a degrado delle risorse e perdita di biodiversità;
– i Paesi che ospitano i rifugiati sono sempre più attenti agli impatti ambientali (che si trasformano in danno economico) e al recupero dei siti degradati;
– la documentazione predisposta fino ad allora da Unhcr trattava l’ambiente ancora in maniera settoriale.

Il manuale intende supportare l’Unhcr nell’identificare preventivamente gli impatti ambientali delle attività umanitarie (impatto specifico a fronte di una specifica azione), e soprattutto individuare soluzioni contemporaneamente attente agli interessi dei rifugiati, dei Paesi ospitanti, dei donatori, della stessa Unhcr. Essendo un manuale esclusivamente tecnico non viene dedicato molto spazio all’approccio teorico utilizzato nell’impostazione degli strumenti operativi. Di fatto in una mezza pagina vengono elencate le quattro “assumptions”, cioè le ipotesi su cui si basa il lavoro:
– gli impatti ambientali sono sottoprodotti inevitabili dell’esistenza umana e delle interazioni tra esseri umani e mondo fisico;
– è impossibile eliminare gli impatti negativi, ma la loro mitigazione è un obiettivo ragionevole;
– molte aree che ospitano o che “producono” rifugiati sono caratterizzate da un degrado ambientale indipendente dal movimento dei rifugiati; pertanto le attività umanitarie non si realizzano in un ambiente primario ma aggiungono impatti a problemi preesistenti;
– in molte situazioni è possibile con approssimazioni accettabili individuare il valore economico delle diverse tipologie di impatto e quindi usare criteri di efficienza economica per scegliere l’intervento.

Si noti come le ipotesi dimenticano di fatto “le strutture di mediazione” tra società e risorse, c’è in qualche modo nella terza ipotesi un’attenzione a situazioni ambientali preesistenti. In realtà le situazioni preesistenti non hanno a che vedere unicamente con il degrado ambientale, ma con l’esistenza di usi anche sostenibili, ben diversi dalla nuova pressione portata dall’attività umanitaria. Considerata comunque questa carenza concettuale, il manuale presenta validi supporti operativi per un’attività di emergenza attenta alle questioni ambientali, entrando nei dettagli delle fasi dell’emergenza e delle diverse tipologie di azioni da adottare. L’Unhcr intende di fatto orientare le proprie attività in base a quattro principi:
– approccio integrato;
– approccio preventivo;
– massimizzazione dell’efficacia dei costi e dei benefici netti;
– partecipazione locale.

In sintesi dal manuale emerge che per l’attuazione di interventi umanitari attenti all’ambiente risulta centrale la fase pianificatoria che implica: la scelta degli esperti, la conoscenza delle problematiche ambientali, la localizzazione del sito, la previsione dei bisogni (legna, cibo, ecc…), la previsione di azioni che costruiscano sensibilità ambientale e relazioni tra le comunità.

Tipologia degli impatti e descrizione

Degrado delle risorse naturali

Il degrado delle risorse rinnovabili quali acqua, suolo e foreste rappresenta l’elemento più tipico delle attività correlate all’assistenza umanitaria. Il degrado delle risorse naturali è spesso accompagnato ad un impoverimento biologico. La contaminazione delle acque superficiali e profonde può avvenire quando non sono state prese misure sanitarie adeguate, a causa di un utilizzo eccessivo di pesticidi o a causa della percolazione di carburanti e lubrificanti dei veicoli. Nella predisposizione degli insediamenti una scarsa attenzione alla gestione del suolo può aumentare una situazione di instabilità o di degrado dei terreni.

Impatti irreversibili sulle risorse naturali

Si tratta in questo caso degli impatti su aree di alto valore naturalistico-ambientale caratterizzate da alta biodiversità che ospitano habitat e specie rare. Alcune di queste aree sono di importanza mondiale. Questa tipologia di danni è spesso irreversibile pertanto diviene importantissima la prevenzione e la mitigazione degli impatti.

Impatti sulla salute

L’impoverimento delle risorse naturali in prossimità del sito minaccia la sicurezza alimentare a lungo termine e aggiunge impatti negativi sulla salute di un gruppo già debole. La scarsità di legna da ardere può causare l’uso di cibi poco cotti. Un alta percentuale di impatti negativi sulla salute sono causati dalla contaminazione chimica e biologica delle acque per l’uso umano. Polvere e fumo causate dall’utilizzo di legna fresca e di bassa qualità aumenta l’incidenza di malattie respiratorie. La maggior parte di questi problemi colpisce in maniera sproporzionata i gruppi vulnerabili: bambini e anziani.

Impatti sulle condizioni sociali

Gli effetti del degrado ambientale, particolarmente quelli correlati alla raccolta della legna da ardere sono particolarmente sentiti dalle donne e dai bambini. Le donne devono spendere molto tempo per la ricerca e il trasporto della legna. Tale tempo le espone alla fatica, agli assalti, sottraendo inoltre tempo all’attenzione per i figli, la famiglia, le funzioni sociali.

Impatti sulla popolazione locale

Le popolazioni ospitanti soffrono gli stessi impatti ambientali delle popolazioni rifugiate. La competizione tra locali e rifugiati per le risorse scarse (legna da ardere, pascolo, acqua) può causare conflitti e risentimenti. In alcuni casi il flusso di rifugiati ha portato al tracollo dei sistemi locali sostenibile di gestione delle risorse.

Impatti economici

L’influsso dei rifugiati si fa sentire anche nei mercati locali. Mentre gruppi ristretti della popolazioni locali può beneficiarne, i poveri locali sono spesso colpiti negativamente dall’aumento dei prezzi. La deforestazione, il degrado del suolo e delle risorse idriche, costituiscono un costo economico per le popolazioni locali. Lo stesso dicasi anche per la diminuita disponibilità di legna da ardere, materiali da costruzione, medicinali e cacciagione, ricavati dalle foreste vicine. Le conseguenze del degrado ambientale causato in prossimità del campo profughi può farsi sentire a distanza considerevole dal luogo iniziale: erosione del suolo, abbreviazione della vita utile dei bacini artificiali, con correlati problemi di inondazione e distruzione delle infrastrutture.

Troppo spesso i campi di “fortuna” attrezzati per ospitare questi flussi esorbitanti di persone, si trasformano in discariche e cloache a cielo aperto con pericolose ricadute non solo di tipo ambientale, ma anche igienico-sanitarie. Le nostre coste sono diventate “cimiteri” di salvagenti e stracci di ogni tipo, tralasciando lo strazio dei troppi cadaveri che galleggiano in mare.    

Ambientalismo e paradossi

Ci sono ambientalisti che teorizzano la biodiversità, che fanno giustamente guerra contro l’introduzione di specie animali e vegetali esogene in habitat diversi, ma che favoriscono l’immigrazione selvaggia, il mescolamento e la distruzione delle culture diverse. Non vale l’attenzione per le specificità culturali nel rispetto per la biodiversità? L’integrazione non ha mai funzionato: nei posti dove si sono trovate a convivere comunità diverse si sono generati ghettizzazione e conflitti. La multietnicità porta generalmente a un aumento della criminalità e dei problemi sociali. È così anche da noi, dove non siamo mai veramente riusciti ad assorbire del tutto le migrazioni interne, che pure presentano diversità molto minori. È impossibile integrare comunità di etnie e tradizioni diverse senza andare incontro ad uno sradicamento che ha come conseguenza la distruzione delle culture di chi migra e di chi li ospita. È la distruzione di ogni identità.

Insomma, il problema dell’immigrazione massiva sulle nostre coste è legata a doppio filo allo sconvolgimento dell’equilibrio di un ecosistema che si sta rivoltando contro i propri aguzzini. Quanto potrà reggere ancora un continente europeo nel quale se ne sta riversando un altro?

Fonti:

UNHCH (1996), Environmental guidelines, UNHCR, Geneva.

UNHCR (1992), Water Manual for Refugee Situations, UNHCR, Geneva

UNHCR (1994), Manuel d’utilisation des desinfectants dans les situations des refugiés, UNHCR, Geneva

UNHCR (1997), Environmentally Friendlier Procurement Guidelines and Background Paper, UNHCR, Geneva

UNHCR (1997), Refugees and the Environment. Caring for the Future, UNHCR, Geneva

UNHCR (1998), Refugee Operations and Environmental Management: Key Principles for Decision-Making, UNHCR, Geneva

UNHCR (1998), Refugee Operations and the Environmental Management: Selected Lessons Learned, UNHCR, Geneva.

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